NIETZSCHEANA

Schopenhauer e Nietzsche
SOMMARIO:
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Nietzsche sintetizzato
--La prima fase--
--La seconda fase--
--La terza fase--

Discussione

Definendo il Nichilismo

Così Nietzsche parla di sé

Giorgio Penzo parla di "Nietzsche e il Nichilismo"

Nietzsche e Stirner

Nietzsche e Epicuro





FRIEDRICH NIETZSCHE SINTETIZZATO


La fine dell'800 segna il consolidamento del positivismo. Ma accanto a questa sicurezza si sviluppa una mentalità culturale critica nei riguardi della scienza. Una mentalità che esalta la coscienza, che avverte l'analisi psicologica. Il progresso scientifico non ha portato felicità. L'uomo cerca dentro sé l'equilibrio. E' il periodo del decadentismo (in Francia). Si avverte che mancano le certezze. Chi si occupa di questa problematica è Nietzsche che con la sua filosofia intende cambiare tutto quello in cui si è precedentemente creduto.

"Io non sono un uomo, sono una dinamite; dopo di me si contraddirà come mai si è contraddetto; io ho la coscienza di essere la coscienza della crisi europea".

"Il positivismo è stupido".

Dal 900 in poi tutta la filosofia sarà interessata dalla ricerca di nuovi valori.

Nietzsche nasce nel 1884 presso Rocken. Studia filosofia ed insegna in Svizzera. La prima opera, forse la più organica, è "La nascita della tragedia". Fu un cultore dei classici greci. Tutte le sue altre opere sono scritte per aforismi ne consegue che per comprenderne bene il significato è necessario un lavoro di interpretazione (Ermeneutica).

Scrisse pure: "Considerazioni inattuali", "Umano troppo umano", "La gaia scienza", "La genealogia della morale", "Così parlò Zaratustra" (dedicata ad un riformatore dei costumi), "La volontà di potenza". Queste opere non furono pubblicate da lui, ma dalla sorella che modificò qualcosa.

Soffrì di disturbi nervosi: vagò molto per l'Europa, ma si stabilì in Italia e più esattamente in Liguria. Visse aiutato da Paul Ree col quale conobbe un'esule russa, (Lou Andreas-Salomé) studiosa di Freud. Tutti e tre vissero insieme e in questo periodo scrisse "Al di là del bene e del male" che introduceva ad una nuova etica. Successivamente Lou Salomè e Paul Ree scapparono, lasciando Nietzsche in preda a fortissimi disturbi mentali. Venne ricoverato a Torino ove morì nel 1900. Egli rappresenta uno spartiacque tra la filosofia antica e quella seguente.

Seguendo il pensiero di Schopenhauer, affermò che la vita è irrazionale. Adesso si può o come diceva Schopenhauer, fuggire, o come dice appunto Nietzsche gli si può sorridere.

Il suo pensiero venne influenzato anche dalla musica di Wagner, che forte e vibrante esaltava in lui forti sentimenti. Quando Wagner affronta il suo secondo momento, Nietzsche preferisce abbandonarlo. Da qui in poi Nietzsche si dedicherà alla "Carmen di Bizet". Il suo pensiero può essere suddiviso in tre fasi:

1. La nascita della tragedia - nella quale la presenza dei cori era di fondamentale importanza.

2. La morte di Dio, il nichilismo - la morte della metafisica non significa il nulla.

3. Invenzione di nuovi valori per controbattere il nichilismo - essi sono:
---L'eterno ritorno. Fu critico nei confronti della storia, ma la salvò.
---Il superuomo o oltreuomo.
---La volontà di potenza.

Non è possibile definire Nietzsche il filosofo del nazismo. Egli ha avuto parole dure: "Lo Stato è un mostro che puzza: guardatevi da questo mostro". Egli è il filosofo dell'individualismo. E' critico contro tutti anche nei confronti del cristianesimo (ma non con Cristo che era considerato il superuomo).


LA PRIMA FASE


Egli si interessava molto ai classici Greci, notò che la tragedia greca è nata dal coro. Esso può essere l'unico protagonista: se noi pensiamo alle Baccanti, queste si basano sul coro. Il coro è stato quindi l'inizio della tragedia: rappresenta la musica, il coinvolgimento nella necessità dell'azione tragica.

Nella tragedia Socrate individua due spiriti:

• il primo: Apollino o Apollo, figlio di Zeus con il tempio a Delo. Apollo significava colui che porta luce. Era abbinato all'immagine dell'equilibrio e dell'armonia. Il vero significato della vita si può cogliere nell'arte.
• Il secondo: è lo spirito Dionisiaco; Dioniso era il Dio del vino, questo sta ad indicare l'ebbrezza, la passione, l'istinto

La tragedia greca è nata dall'unione dei due spiriti; Dioniso, rappresenta il si alla vita, con tutte le conseguenze. E' il senso di non essere presenti della trasgressione.

Euripide per Nietzsche ha tradito la tragedia perché troppo razionale. Egli ha voluto fare una tragedia per la massa, con il linguaggio della massa. Egli aveva presente due spettatori: Euripide stesso e l'altro che con la sua razionalità ha condannato a morte la vitalità: Socrate. Anch'egli è traditore perché ha allontanato il pensiero dell'uomo dall'aggancio alla vita per buttarlo tutto nelle braccia della ragione e da questo momento per l'umanità è finita, comincia il distacco dalla vita.

L'amicizia con Wagner finisce quando questo, gli manda la sua opera: il Parsifal. Parsifal era un folle, che grazie al cristianesimo si riporta alla realtà. Wagner gli sembra un traditore poiché con il Parsifal aveva tradito il disprezzo comune nei confronti del cristianesimo visto come negazione della vita. I cristiani infatti hanno risentimento verso chi si gode la vita e tra l'altro hanno pure una morale da schiavi, da gregge.


LA SECONDA FASE


La seconda fase si apre con La gaia scienza. L'impianto è identico a quello di Così parlo Zaratustra. E' ambientato nella piazza del mercato: un uomo arriva e dice che Dio è morto e che l'avevamo ucciso noi...

Zaratustra invece, giunto al tramonto, scende nella piazza, nella massa. La morte di Dio rappresenta la fine dei valori tradizionali, delle certezze. L'abbiamo ucciso noi, perché è finito quel periodo. E' anche la fine dell'etica.

I nostri valori, se prima erano della rinuncia, adesso devono essere vitalità. Ciascuno di noi deve dire di si alla vita, deve seguire il vitalismo. Se Dio è morto siamo di fronte al nichilismo, al nulla; dobbiamo inventarci nuovi valori. Nel momento della morte di Dio si è vista la coscienza infelice di Hegel. In questo momento di lacerazione, Nietzsche, cancella quello che c'è stato prima, ma salva la storia:

archeologia - l'uomo trova qualcosa da venerare;
monumentale - dimostra la grandezza dell'uomo;
critica - perché l'uomo soffre e ha bisogno di liberazione.

Rompe quindi con la storia tradizionale. La liberazione dell'uomo è dunque uno degli obiettivi di Nietzsche.

Spesso sembra che Nietzsche abbia scritto per allucinazioni. La sua filosofia è la "Trasmutazione" dei valori.

Il verbo volontarismo, unisce Schopenhauer (volontà), Kierkegaard (possibilità) e Nietzsche (amor fati e nichilismo passivo e attivo).


LA TERZA FASE


E' la fase in cui è più evidente il conflitto tra morale da schiavi e aristocratica. Quella aristocratica corrisponde al vitalismo (dire si alla vita), quella da schiavi e quella cristiana (di costante rinuncia).

Questo si vede nell'opera Così parlò Zaratustra: "Vi scongiuro fratelli, non mettete la testa nella sabbia, innalzatela! Non siate come cammelli (che sopportano), ma leoni, leoni che ridono (aristocratici e superiori rispetto alle piccolezze della vita). L'uomo è una corda tesa sull'abisso tra la scimmia e il superuomo, ossia tra materialità, piccolezza e l'oltre-uomo, ossia la tensione all'infinito, che può diventare quello che guida". Si diventa così esprimendo ciascuno di noi la volontà di potenza, ossia ciascuno di noi cerca di fare di se stesso il massimo, fare coincidere volontà e potenza.

L'unico imperativo è io voglio, non più tu devi ma in particolare "Divieni ciò che sei esprimi al massimo la tua natura". La nostra caratteristica è l'amor fati: significa essere inseriti nella legge dell'eterno ritorno, l'unica legge cosmologica: "Tutto ciò che è avvenuto avverrà, tutto ritorna".

Quando Zaratustra, col nano sulle spalle che indica la pesantezza della quotidianità, si ferma sulla porta con su scritto "attimo", con l'eternità dietro e davanti, nota l'aquila che vola e il serpente che striscia ai piedi, entrambi in senso circolare, che rappresentano la metafora dell'eterno ritorno.

In Nietzsche non c'è nulla di storico. E' un eroe per la realizzazione della vita. "Le virtù non sono quelle che vi hanno insegnato (sopportazione, tolleranza). La vera virtù è il contrasto, l'affrontar". Ognuno di noi deve esaltare se stesso "guardatevi da coloro che vogliono insegnarvi la virtù, il rispetto sociale e delle leggi.

Lo Stato è la più grande menzogna. Alla fine quindi non si salva proprio niente. Ciascuno deve realizzare la propria volontà di potenza, deve tendere ad essere il super-uomo.

Zaratustra scese in piazza perché era giunto al tramonto, era pieno, e doveva dare agli altri. Nietzsche rappresenta la fine dell'etica tradizionale dei valori.





Friedrich Nietzsche

DISCUSSIONE
(con sfondo freudiano)



Nietzsche e Freud sono accomunati dall'aver smantellato in profondità, seppur con differenti modalità, le certezze del mondo ottocentesco e della sua fiducia razionalistica, già peraltro fatte scricchiolare da Schopenhauer e da Kierkegaard.

Il bersaglio a cui indirizzano le loro critiche è costituito tanto dal panlogismo hegeliano quanto dal masterialismo marxiano e dallo scientismo positivistico, filosofie che hanno in comune una fiducia esasperata nel progresso.

Ed è a partire da queste critiche che Freud e Nietzsche, così diversi tra loro, mettono in discussione i punti apparentemente più stabili della civiltà occidentale.

I due pensatori, poi, sono tra loro accostabili perchè non possono essere considerati filosofi nel senso classico del termine: Freud è prima di tutto un medico e Nietzsche nasce come filologo, tant'è che esordisce come docente di filologia classica, anche se interpreta tale disciplina non come strumento per ricostruire fedelmente il passato, ma come una maniera per scavare nel significato più intimo della civiltà occidentale e per poter così metterne in evidenza gli aspetti più oscuri e stridenti; dietro la maschera di Nietzsche filologo è evidente come si nasconda già il Nietzsche filosofo che interpreterà l'Occidente.

Nel suo lavoro di filologo, spesso e volentieri egli non rispetta le norme di "serietà" proprie della disciplina, ma si lascia trasportare dalla ricerca del significato profondo che ad essi soggiace e per coglierlo compie salti argomentativi che il più delle volte si rivelano spericolati.

In altri termini, Nietzsche non vuole studiare l'antichità esclusivamente per conoscerla nella sua essenza più intima, ma, viceversa, intende piuttosto impossessarsi di conoscenze che gli permettano di farsi profeta di una traformazione della civiltà attuale: e proprio in questo risiede l' "inattualità" del pensiero nietzscheano (come recita il titolo delle celebri Considerazioni inattuali), nel trovarsi fuori posto nel suo tempo, nell'essere o troppo indietro o troppo avanti rispetto ai tempi correnti.

Egli infatti scava nel mondo greco per farsi profeta di quelle trasformazioni che investiranno, prima o poi, la società del suo tempo e facendo ciò si trova perennemente proiettato o nel passato o nel futuro.

E Nietzsche è in piena sintonia con l'idea marxiana di una filosofia di trasformazione, per cui interpretare il mondo, senza mutarlo, è insufficiente e, nel proporre questo modo di pensare, egli rompe brutalmente una lunga tradizione, risalente ad Aristotele, la quale voleva la filosofia come sapere fine a se stesso.

Il sapere per il sapere, di ispirazione aristotelica, a Nietzsche non interessa, come del resto non gli interessa la pura e semplice ricostruzione filologica della realtà: queste operazioni, infatti, risultano del tutto subordinate, e dunque di secondaria importanza, rispetto al problema della vita.

Sulla base di queste considerazioni, Nietzsche si innesta su un filone di pensiero che possiamo tranquillamente definire vitalistico, volto all'esaltazione della vita e dell'irrazionalismo che la contraddistingue; nella 2^ delle Considerazioni inattuali, il cui titolo recita "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", Nietzsche non si domanda, come invece facevano i suoi contemporanei, se la storia sia o non sia una scienza e come la si debba impostare per far sì che essa ricostruisca fedelmente il passato; al contrario, gli interessa se la storia sia utile o dannosa per la vita: tutta la storia della filosofia precedente a Nietzsche aveva concentrato la propria indagine sulla ricerca del vero, senza mai osar mettere per davvero in forse il concetto di verità; ora, Nietzsche è del parere che il concetto di verità sia uno di quei concetti su cui si è costruita nel corso della storia la civiltà occidentale ed egli si propone di sostituirlo, dopo averlo dimostrato assurdo, con quello di utilità: la vera filosofia non deve più domandarsi cosa è vero, ma cosa è utile per la vita.

Ne consegue che il criterio per giudicare un sapere non consisterà più nel domandarsi se esso sia veritiero, ma se serve o no alla vita, ovvero se è in grado di stimolare le forze vitali dell'uomo.

Nietzsche prende le distanze dalla tradizione anche per il modo di scrivere: al periodare ampio e architettonicamente strutturato, egli preferisce l'aforisma, caratterizzato dalla forma concisa, essenziale e folgorante di punti cruciali, attraverso stringate argomentazioni e rapide illuminazioni: inoltre l'aforisma, che Nietzsche mutua da Eraclito, è tipico delle filosofie non-sistematiche e ben risponde all'esigenza della filosofia nietzscheana di operare come un martello che distrugge le verità e che saggia le campane per vedere se suonano bene (fuor di metafora: gli aspetti della civiltà occidentale), o se debbano essere abbattute.

Ecco perchè l'opera del pensatore tedesco si configura come un'opera di smontaggio degli elementi occidentali per sondarne la legittimità con i colpi martellanti dell'aforisma.

Egli si avvale di questo stilema narrativo in quasi tutte le sue opere, fatta eccezione per La nascita della tragedia e per le Considerazioni inattuali, dove invece prevale la forma accademica del saggio, ossia la trattazione di un tema che procede gradualmente passo dopo passo, poichè l'argomento trattato lo costringe a percorrere quella strada (anche se fortissima è la partecipazione emotiva del filosofo); un'altra illustre eccezione è rappresentata dal capolavoro di Nietzsche, Così parlò Zarathustra: ciò a cui maggiormente si avvicina sono le Sacre Scritture e non a caso il protagonista stesso (Zarathustra) è un profeta o, meglio, per usare un'espressione tipicamente nietzscheana, è un "Anticristo", ovvero predica un modo di vita diametralmente opposto a quello delineato da Cristo.

Proprio come nei Vangeli, si racconta la vita del profeta inframmezzata da parabole e scintillante di metafore.

E' bene spendere qualche parola anche sulla vita di Nietzsche, naufragata nella pazzia: al di là dei molteplici eventi che l'hanno segnata, è molto importante il fatto che essa si sia tragicamente conclusa, dopo una lunga depressione, in una follia che ha portato il filosofo alla morte, dopo il crollo avvenuto nella sua città prediletta, Torino.

E c'è chi ha voluto scorgere in alcuni aspetti sconcertanti della filosofia nietzscheana la prova lampante che la sua mente fosse già malata, leggendo la sua follia come un effetto della sifilide contratta in passato.

Vi è poi stato chi ha sostenuto che la follia fu causata dalla filosofia stessa elaborata dal pensatore: e in effetti certi aspetti di essa tendono a sfuggire ad ogni logica umana, a schizzare via da ogni forma di comprensibilità; in certi punti il pensiero si smarrisce letteralmente e questo avvitamento estremo della filosofia lo avrebbe portato alla follia.

Detto questo, passiamo ad esaminare la prima opera importante composta da Nietzsche: si tratta de La nascita della tragedia, del 1871.

L'impostazione è, apparentemente, di stampo filologico, in quanto si cerca di risalire alle origini della tragedia fiorita in età greca, ma, come si evince fin dalle prime pagine, le tesi strettamente filologiche sono affiancate da profonde considerazioni filosofiche; ed è curioso notare come questo modo argomentativo abbia fatto molto presa, a tal punto che in molti (tra cui Heidegger -- vedi sotto il saggio di G. Penzo), da allora, cercheranno, sulla scia di Nietzsche, di studiare dai tempi più remoti la società occidentale per poterla sanare.

Nell'opera e, più in generale, nell'intera filosofia nietzscheana, aleggia l'idea che la crisi che sta vivendo la civiltà occidentale sia un qualcosa di molto remoto, risalente ai tempi del mondo greco, nell'idagine del quale Nietzsche apporta ragguardevoli novità.

In primo luogo, egli stravolge la tradizione nella misura in cui non guarda alla civiltà greca come vivamente ottimistica, come invece si era soliti fare in virtù della tradizione invalsa dal Rinascimento in poi; al contrario, vuole indagarne gli aspetti ombrosi, il pessimismo di fondo che serpeggia in quel mondo e che nessuno era stato davvero in grado di cogliere.

In quest'indagine, Nietzsche prende spunto da Schopenhauer, della cui filosofia si dichiara momentaneamente depositario: e legge appunto la nascita della tragedia come manifestazione di questo pessimismo latente che pervade il mondo greco; in particolare, egli adduce come esempi del pessimismo imperante all'epoca le lamentazioni sull'esistenza, i numerosi paragoni instaurati tra le stirpi umane e le foglie e, soprattutto, ricorda la vicenda di un sovrano che, imbattutosi in un satiro dei boschi detentore della verità sull'esistenza umana, dopo averlo a lungo rincorso, lo costringe ad enunciare tale verità: il bene assoluto per l'uomo è non nascere e, se è nato, morire al più presto.

L'altra grande novità (strettamente connessa alla prima) che Nietzsche introduce nel suo metodo filologico risiede nell'aver scorto il momento culminante dell'età greca non nella società dei tempi di Platone e Pericle, bensì nella civiltà arcaica, ancora venata dal pessimismo; infatti, l'ottimismo è subentrato a partire dai grandi sistemi filosofici di Platone e Aristotele.

E la tragedia, nella prospettiva nietzscheana, costituisce il momento in cui la civiltà greca arriva al massimo grado e, contemporaneamente, si avvia al suo tramonto: l'intera civiltà greca (e, indirettamente, quella occidentale) appare agli occhi di Nietzsche governata da due princìpi che egli identifica, rispettivamente, con il dio Apollo e con il dio Dioniso .

Essi simboleggiano due atteggiamenti antitetici che connotano il mondo dei Greci: da un lato, Dioniso è l'orgiastico dio della natura selvaggia e incarna il disordine, le forze irrazionali e istintive dell'uomo; dall'altro lato, Apollo è il dio solare, emblema dell'equilibrio, dell'armonia, della razionalità e dell'ordine.

Ed è come se il mondo greco, nella sua classicità, avesse privilegiato l'atteggiamento apollineo, dandosi una veste razionale: ma Nietzsche mette in risalto l'aspetto dionisiaco, attribuendogli anche un peso maggiore rispetto a quello apollineo.

Prima che nascesse la tragedia, egli nota, vi è stato un alternarsi dei due atteggiamenti, per cui ora prevaleva la prospettiva caotica del dionisiaco, ora quella composta dell'apollineo: e se in alcune civiltà orientali (Nietzsche ha soprattutto in mente certi culti orgiastici in cui il dionisiaco si manifesta in modo sfrenato) lo spirito dionisiaco emerge incontrastato da quello apollineo e perciò risulta particolarmente violento, nel mondo greco, invece, il dionisiaco genera anche l'apollineo, quasi come una barriera di difesa all'impeto dirompente dello spirito dionisiaco.

Soffermando la propria attenzione sul mondo greco, Nietzsche cita espressamente il tempio dorico arcaico che, con la sua assoluta perfezione geometrica, rappresenta proprio l'ergersi dell'ordine apollineo in opposizione al caos dilagante del dionisiaco.

Ed è evidente come la novità della lettura nietzscheana della civiltà greca consista non tanto nell'aver sostenuto che, in fin dei conti, la cultura greca non è poi così ordinata come sempre la si è immaginata, quanto piuttosto nell'aver evidenziato il fatto che l'ordine che, qua e là, la colora è una pura e semplice manifestazione derivata dal caos di fondo, una barriera volta a limitare i danni dell'eccessivo disordine.

A differenza dell'interpretazione che del mondo greco aveva dato qualche decennio prima Hegel, ad avviso del quale, in fin dei conti, i Greci erano un popolo ottimista e composto per inclinazione naturale, Nietzsche mette in luce come i Greci abbiano insistito in modo esasperato sull'ordine perchè avevano un senso particolarmente acuto della tragicità dell'esistenza umana, cosicchè dionisiaco e apollineo, inizialmente presentati come due poli antitetici, si rivelano ora come due facce della medesima medaglia, in quanto l'apollineo nasce come reazione alla tragicità dionisiaca della vita.

E, sotto questo profilo, la tragedia greca costituisce il vertice raggiunto dal mondo arcaico, in quanto in essa è cristallizzato un perfetto e armonico equilibrio tra lo spirito dionisiaco e quello apollineo : sulla scena, infatti, vengono rappresentati avvenimenti terribili che però risultano piacevoli agli spettatori (già Aristotele aveva riflettuto su questo paradosso); l'interpretazione che ne dà Nietzsche è in piena sintonia con il suo ragionamento: di fronte alla tragicità degli eventi messi in scena, si prova piacere perchè si esprime sì l'impeto dionisiaco, ma è "Dioniso che parla per bocca di Apollo", ovvero gli elementi tragici dell'esistenza messi in scena vengono sapientemente sublimati dall'essere tradotti in un linguaggio artistico, come se Apollo desse forma ai contenuti di Dioniso.

E la tesi nietzscheana, che campeggia nell'opera, secondo la quale la tragedia deriverebbe da antichi riti dionisiaci è ancor oggi per lo più accettata: "tragedia", infatti, sta a significare "canto del capro" e il capro era appunto un animale sacro a Dioniso; al coro di uomini vestiti come capri in onore del dio, si è sempre più contrapposta la figura di Dioniso e da ciò si è, gradualmente, sviluppata la tragedia vera e propria.

Come abbiam detto, in quest'opera Nietzsche professa la propria ascendenza schopenhaueriana e ben lo si evince dal prevalere, nella sua lettura del mondo greco, dell'aspetto drammatico e caotico dell'esistenza e della forza irrazionale, quasi demoniaca, che la permea a tal punto che la razionalità altro non è se non una mera apparenza.

Tuttavia, nella seconda edizione dell'opera, Nietzsche pone una prefazione in cui dichiara di non essere più schopenhaueriano e che anzi, già quando aveva scritto La nascita della tragedia si era solo illuso di esserlo.

E in effetti le differenze tra i due pensatori sono parecchie: seppur accomunati dal privilegiamento per l'irrazionalità e dal pessimismo, i due filosofi appaiono incommensurabilmente distanti nella loro concezione della vita; essa è per Nietzsche il valore centrale intorno al quale costruire la filosofia, mentre invece per Schopenhauer, attraverso quel tortuoso processo che, culminando con la "noluntas", porta allo spegnimento della vita stessa, essa non ha alcun valore, ed è anzi la fonte della sofferenza umana.

Nietzsche, che pure all'epoca de La nascita della tragedia si riteneva schopenhaueriano nella misura in cui prospettava la caoticità dell'esistenza, non giungeva affatto a scorgere l'unico rimedio possibile all'infelicità dell'esistere nell'annullamento della vita stessa: in altri termini, se per Schopenhauer, dopo essersi accorti che la vita è tragica, non resta che uscirne al più presto, per Nietzsche, viceversa, la si deve vivere fino in fondo, accettandola in ogni sua sfumatura (in Così parlò Zarathustra egli dice, con un'espressione che ben sintetizza la sua filosofia, "bisogna avere un caos dentro di sè per generare una stella danzante").

Da tutto ciò si evince come per Nietzsche la vita sia il valore supremo e che dunque la tragicità che la connota non sia un motivo sufficiente per sottrarsi ad essa : il che è brillantemente simbolizzato dal coro tragico che si identifica a tutti gli effetti con la caoticità di Dioniso; Apollo stesso, del resto, non viene dipinto a tinte negative, ma è anzi inteso come un filtro che permette di vedere la tragicità esistenziale senza essere accecati dal fulgore che essa emana.

Ciò non toglie, tuttavia, che l'apollineo, per rimanere positivo, non debba perdere il suo contatto con il dionisiaco (da cui è generato): il problema sorge nel momento in cui Apollo non è più portavoce di Dioniso, ma parla con voce propria, diventando così autonomo. E il crollo della cultura greca, verificatosi agli occhi di Nietzsche nel V secolo a.C., è legato proprio a questo: i due personaggi che ne sono vessilliferi sono Euripide, tragediografo dell'epoca, e Socrate, modello tipico di spettatore di tali tragedie.

Infatti, con la produzione euripidea, il tragico sfuma e cede il passo alla razionalità, i personaggi in scena ragionano con una dialettica spietata e la tragedia perde i suoi connotati tragici tendendo sempre più a diventare ottimistica e razionale.

Socrate, dal canto suo, è il primo grande simbolo della grande razionalità filosofica della Grecia e il suo allievo, Platone, non fa che portare alle stelle questa tendenza: da quel momento fino all'epoca in cui vive Nietzsche, la civiltà occidentale è sempre più andata, in modo irresistibile, verso una marcata compostezza ordinata e razionale, con il conseguente sganciamento dell'apollineo dal dionisiaco e la fine dell'equilibrio tra i due.

Ma a Nietzsche non interessa il passato in quanto tale, ma la vita e il suo trascorrere incessante nel presente: ed è per questo che proietta la sua indagine sulla meravigliosa epoca dei Greci, per cercare il senso e l'origine profonda di quella crisi che alimenta l'epoca in cui Nietzsche vive; e il filosofo, come abbiam visto, rinviene le radici di tale crisi nel prevalere schiacciante dell'apollineo sul dionisiaco.

E in questa fase del suo percorso filosofico, Nietzsche, oltrechè schopenhaueriano, si professa wagneriano, scorgendo nella figura di Wagner la possibilità di una rinascita della tragedia greca, intesa come antidoto al prevalere imperante dell'apollineo.

Questo atteggiamento è presente anche nella II delle Considerazioni inattuali (1873-74), dal titolo Sull'utilità e il danno della storia per la vita : che la riflessione di Nietzsche sia "inattuale" e che egli sia, se inquadrato nella sua epoca, un pesce fuor d'acqua è evidente già solo dal titolo di questa Considerazione, titolo che peraltro costituisce la chiave di lettura di tutto il suo pensiero: a Nietzsche non interessa affatto se la storia dica il vero o se vada adottato un metodo storico piuttosto che un altro; semplicemente si domanda se la storia sia utile o dannosa per la vita, protagonista indiscussa della sua filosofia a partire da La nascita della tragedia (anche se in tale opera finiva per identificarsi con la volontà schopenhaueriana).

Dalla lettura della 2^ Considerazione, emerge come per Nietzsche la storiografia, che di per sè non è da respingersi, in quegli anni abbia assunto un'eccessiva importanza a tal punto da poter divenire dannosa, poichè fa sì che ci si senta inibiti nella vita perchè posseduti dalla malsana idea che tutto ciò che si poteva fare sia già stato compiuto nel corso della storia umana.

Per poter agire nella vita è necessario un margine di oblìo e di ignoranza, e pertanto la storiografia va bene solo se presa a piccole dosi.

Nello specifico, poi, egli individua tre diversi tipi di storiografia : quella "critica" ha un approccio critico con il passato e, dunque, si pone (sulla scia dell'Illuminismo) in forma correttiva rispetto ad esso; quella "monumentale", invece, esamina e celebra le azioni del passato e, infine, quella "antiquaria", come suggerisce il nome, nutre un culto, di stampo museale, del passato in quanto tale.

Ciascuna di queste tre tipologie, a patto che non venga oltremodo esasperata quantitativamente e non si trascurino le altre, è utile: la critica e l'esaltazione delle gesta del passato, infatti, sono uno stimolo per agire in modo migliore e, in modo analogo, perfino il radicamento museale nel passato può essere una buona premessa per agire meglio (pensiamo a Manzoni, che nell'Adelchi mette in scena vicende del passato radicate nella cultura italiana per aizzare il popolo ai moti risorgimentali).

Ciò non toglie, tuttavia, che non si debba esagerare: perchè se è vero che i tre tipi di storiografia possono, per le ragioni poc'anzi esposte, essere utili alla vita, è anche vero che, se si eccede, possono rivelarsi dannose. Se si critica eccessivamente il passato, infatti, ci si limita a lamentale di come le cose non debbano andare e se si esaltano troppo le imprese degli antichi ci si blocca in un'assurda idolatria. Ed è per questa ambiguità per cui la storia, nelle sue tre sottodivisioni, è in perenne bilico tra l'essere utile e l'essere dannosa per la vita, che Nietzsche attribuisce tale titolo alla seconda Considerazione.

E, proprio come fa Freud, egli propone sempre anche degli antidoti: se ne La nascita della tragedia aveva proposto l'opera wagneriana come possibile ritorno all'equilibrio tra apollineo e dionisiaco, ora, invece, sostiene che per far fronte al rischio che la storia possa danneggiare la vita si deve ricorrere all'arte e alla religione. L'arte, infatti, pressochè costante nell'opera nietzscheana, può costituire un'efficace cura per dar spazio alla creatività dell'uomo e al suo istinto creativo, anche se, è bene notare, il pensatore tedesco cambia, a poco a poco, il suo atteggiamento.

Se ne La nascita della tragedia e nelle Considerazioni inattuali ravvisa nell'arte un potente antidoto contro l'apollineo che mortifica la vita, man mano che matura, Nietzsche è sempre meno convinto che essa possa salvare e arriva a sostenere che si deve vivere la vita come un'opera d'arte (tesi che sarà particolarmente cara a D'Annunzio), ovvero si deve condurre la propria esistenza artisticamente, diventando creatori di valori e di certezze da contrapporre a quelli tradizionali.

Forse più complessa è la questione per quel che riguarda la religione: pare infatti piuttosto strano che Nietzsche, accanito sostenitore che "Dio è morto" e autore de L'Anticristo, possa rintracciare nella religione un rimedio. Tuttavia, è bene precisare, Nietzsche non era banalmente un "ateo" dispregiatore della religione: come non gli interessa se la storia sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita, così la religione gli sta a cuore nella misura in cui essa può promuovere la creatività umana: e se arriverà a condannare le religioni dei suoi tempi, lo farà quasi esclusivamente perchè esse uccidono la vitalità, non perchè sono menzognere; e, in questa fase del suo pensiero, non può fare a meno di constatare che nell'epoca d'oro della tragedia (quella di Sofocle e, soprattutto, di Eschilo) la religione era un patrimonio lussurreggiante di miti e di immagini da vivere in prima persona con i riti e con le feste, cosicchè essa non ammazzava, ma anzi era una sorgente di vitalità umana.

Da queste riflessioni si capisce come per Nietzsche la religione e l'arte siano antistoriche e "inattuali": esse, cioè, si collocano al di là della pericolosità dell'incantesimo di quella storia che, se eccessiva, fiacca la vita.

Una buona parte del lavoro filosofico di Nietzsche nella sua maturità è dedicato alla ricostruzione della " genealogia della morale " (come recita il titolo di un suo scritto datato 1887): se nella prima fase della sua indagine, il pensatore tedesco aveva individuato nell'arte la via di salvezza per la civiltà occidentale, da un certo momento in poi egli abbandona tale strada e scorge l'unico antidoto possibile nella scienza e per questo motivo questa nuova stagione del suo pensiero è stata spesso definita "illuministica", tant'è vero che molti dei suoi scritti maturati all'epoca sono dedicati ai più prestigiosi pensatori dell'età della ragione, tra cui spicca Voltaire (dedicatario di Umano, troppo umano).

Apparentemente può stupire questa fedele adesione alla scienza di un pensatore che privilegia l'irrazionale e, soprattutto, il vitalismo: ma l'atteggiamento che egli assume è radicalmente diverso rispetto a quello positivistico, fiducioso che nel dato di fatto risiedesse la verità; più precisamente, la valutazione positiva che Nietzsche riserva alla scienza può essere spiegata facendo riferimento ad un altro testo, del 1881, intitolato La gaia scienza: il pensatore tedesco apprezza la scienza non in base ad un criterio di verità, ma piuttosto perchè capace di liberare l'uomo, proprio come, anni prima, aveva valutato positivamente la religione per la sua capacità di far emergere la capacità creativa. Ed è per questo che egli abbraccia la scienza nella misura in cui in essa scorge una capacità liberatoria, senza contrapporla perchè più "vera" (come invece facevano i Positivisti) alle nebbie della metafisica: un pò come aveva fatto per la storia, egli si domanda ora non se la scienza sia vera o falsa, ma se sia utile o dannosa per la vita. E la valutazione che ne dà è inequivocabilmente positiva: la tecnologia stessa appare ai suoi occhi come un elemento liberatorio e non è un caso che egli, in questo periodo, concentri la sua attenzione su molti studi variegati, anche di natura scientifica.

Ciò che più affascina Nietzsche della scienza e del suo essere utile per la vita è il fatto che essa indaghi sull'origine delle cose ed è per questo che la sua attenzione è rivolta precipuamente alla chimica e alla paleontologia, finalizzate (anche se una nel tempo, l'altra no) alla ricerca dell'origine degli elementi costitutivi della realtà. In sostanza, conclude Nietzsche, queste due scienze hanno un atteggiamento "genealogico" e si propone di operare anch'egli, in ambito filosofico, con questo metodo di costruzione dell'origine passando per lo smontaggio; tuttavia, se la chimica e la paleontologia studiano, in senso lato, la natura, Nietzsche vuole invece proiettare la propria indagine sulla morale, anche se con le stesse modalità delle altre due discipline: ed è per questo motivo che il suo famoso scritto che ne scaturisce si intitola Genealogia della morale.

Più che distruggere la morale, come più volte gli è stato rinfacciato, Nietzsche la "decostruisce", come ha acutamente messo in evidenza dal filosofo Gianni Vattimo, ovvero la costruisce all'incontrario: come la chimica "smonta" le sostanze complesse per ravvisare i singoli elementi che le costituiscono, così egli si propone di agire nei confronti della morale; ed è, a tal proposito, significativo il titolo di un'opera del 1878, intitolata Umano, troppo umano, che mette in risalto come dallo smontaggio della morale se ne ottenga una demitizzazione della morale stessa.

In altri termini, la morale ha tradizionalmente poggiato su realtà sovrasensibili (il mondo delle idee di Platone ne è la più fulgida espressione), quasi come se nella storia i valori umani fossero stati tramutati in divini; questo atteggiamento paradossale, nato con Socrate e proseguito con Platone, ha accompagnato la civiltà occidentale per tutto il suo sviluppo, senza mai venir meno.

Il cristianesimo stesso altro non è, a dire di Nietzsche, che un "platonismo popolare" che, con una precettistica meno raffinata di quella platonica, ha fatto slittare la discrepanza tra mondo fisico e mondo metafisico da un piano ontologico ad uno temporale, cosicchè la trascendenza non si colloca più al di sopra, ma dopo, dal momento che la si raggiunge solo con la morte.

Perfino la democrazia e il socialismo sono il frutto di quest'atteggiamento di divinizzazione della morale e ciò che intende mettere in luce Nietzsche in Umano, troppo umano è come quei valori ipostatizzati, quasi trasformati in sostanze divine, in realtà sono umani, fin troppo umani: "dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane". Ma più che venir rifiutati, questi valori "ideali" sono smontati, quasi denudati, ossia messi in luce nella loro vera origine e quindi nella loro vera natura, attraverso un'operazione filosofica accostabile a quella di un martello che saggia ogni cosa. E, nel concreto, dimostrando nella sua indagine sulla genealogia della morale che essa non ha un'origine sovrasensibile e divina, ma anzi, fin troppo terrena, egli intende dire, ad esempio, che le regole morali che serpeggiano nella nostra civiltà sono regole di convivenza civile per regolare il comportamento degli individui, e non leggi enigmaticamente emanate da dio.

E perchè nasce la morale? L'uomo, osserva Nietzsche, ha per natura il bisogno di dominare la realtà che lo circonda e tale esigenza si estrinseca in primo luogo come dominio intellettuale (la paura del buio, ad esempio, nasce dal fatto che non riusciamo a dominare concettualmente l'ambiente in cui ci si trova) e, per fare ciò, l'uomo sente la necessità impellente di imporsi delle regole comportamentali e conoscitive che lo difendano dalla realtà caotica e irrazionale in cui è immerso, proprio come, al tempo dei Greci, lo spirito apollineo era nato da quello dionisiaco. Ma il termine "morale" riveste in Nietzsche un significato più ampio di quello che, solitamente, le attribuiamo: a costituire la "morale" sarà la sfilza di regole che l'uomo si è imposto, ma anche i criteri per stabilire ciò che è vero e ciò che è falso, dato che la ricerca della verità e la necessità di comunicarla ai propri simili è esso stesso un valore morale, cosicchè anche il vero, oltre al bene, rientra nella vastità semantica del termine "morale".

Ma non basta: perfino la religione è una forma di morale, visto che in Dio sono cristallizati tutti i valori maturati nella storia dell'uomo ed è in quest'avventura di ricerca dell'origine umanissima della morale che Nietzsche ha modo di trattare della schiavitù: quelli che vengono generalmente riconosciuti come "il bene" e "il male" sono tali perchè l'han stabilito i "padroni", afferma Nietzsche accostandosi in modo impressionante alle tesi che in quegli anni stava elaborando pure Marx; dopo di che, tuttavia, succede anche che nasca una morale dei servi, di coloro, cioè, che sono assoggettati in quanto deboli e che, con la loro morale, intendono negare la validità del diritto del più forte, proponendo, opposta ad essa, una "morale del risentimento".

In questa prospettiva, che molto risente delle discussioni degli antichi Sofisti (cari a Nietzsche perchè demolitori della verità) sulla distinzione tra fusis e nomos , Nietzsche scaglia i suoi velenosi strali soprattutto contro Platone, che nella Repubblica aveva contestato a Trasimaco il diritto del più forte, contro il cristianesimo, strenuo propugnatore dell'uguaglianza degli uomini di fronte a Dio, contro la democrazia e contro il socialismo ("balorda incomprensione di quell' ideale morale cristiano"); e dopo aver tuonato contro di essi, Nietzsche fa una scoperta sensazionale: la morale dei deboli può diventare morale della sopraffazione, poichè se essi si uniscono possono imporre i loro valori in modo coercitivo ma anche in modo "pacifico" e, in quest'ottica, l'ascetismo stesso, tanto caro a Schopenhauer, altro non è se non trasformare in valore l'incapacità di vivere la vita fino in fondo e voler costringere gli altri a cedere a tale valore.

Perfino i martiri cristiani, sostiene Nietzsche, commettono una violenza, poichè col martirio è come se imponessero agli altri i loro valori.

Con queste riflessioni Nietzsche demitizza la morale e da ciò deriva un atteggiamento di nichilismo , ovvero una filosofia del nulla che prorompe dal venir meno dei punti di riferimento della morale: e Nietzsche distingue tra "nichilismo passivo", dipingendolo in negativo, e "nichilismo attivo", esaltato invece come altamente positivo.

Se con Platone era invalsa la convinzione che esistessero due mondi distinti, uno intellegibile e perfetto, l'altro fisico e lacunoso perchè pallida copia dell'altro (e il cristianesimo aveva esasperato questa mentalità), si è poi scoperta la falsità di tale apparato ideologico e morale, cosicchè il mondo fisico ha perso ancora più consistenza perchè, se ai tempi di Platone e della morale cristiana, era considerato imperfetto ma comunque copia di quello ideale, ora si trova smarrito e senza punti di riferimento assoluti: domina dunque il nichilismo passivo, che corrisponde a buona parte delle posizioni atee (ad esempio, gli atei che invidiano chi ha ancora il coraggio di credere).

Con la fase del nichilismo passivo, il mondo ha perso consistenza rispetto al mondo di Platone perchè, se è vero che ha proclamato la falsità dei punti di riferimento assoluti (Dio, la morale, ecc), è altrettanto vero che non si è del tutto liberato da quel gravoso fardello e prova una sorta di rimpianto per quel mondo assoluto.

Poi, però, nasce una nuova posizione: dopo aver dichiarato l'inesistenza del mondo dei valori assoluti, ci si accorge che di esso non c'è più bisogno (e forse non ce n'è mai stato), sicchè viene meno il rimpianto che caratterizzava il nichilismo passivo; il mondo sensibile resta l'unico e assume un valore assoluto, mai conosciuto in precedenza, poichè tutto il valore riconosciuto un tempo al mondo sovrasensibile si riversa ora su quello terreno e così, dal nichilismo passivo si passa a quello attivo, caratterizzato da un radicale immanentismo; il nuovo ateo, cioè, non rimpiange più il mondo dei valori, ma dice: "dio non c'è? Benissimo, allora dio sono io", o, per usare le parole impiegate da Nietzsche in Così parlò Zarathustra, "se esistessero gli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! [...] adesso é un dio a danzare, se io danzo".

E una volta che la scienza "gaia" (perchè liberatrice) perviene alla conoscenza e alla decostruzione della morale, la depotenzia fino a liberare l'uomo dalle tradizionali catene dei valori morali imposti dall'esterno e, per questo motivo, limitativi nei confronti della creatività umana; però, solo con il passaggio dal nichilismo passivo a quello attivo si attua effettivamente la liberazione dell'uomo e quella che Nietzsche definisce " trasvalutazione dei valori ", cioè lo stravolgimento dei valori tradizionali: non si tratterà di eliminare il bene e il male, ma di trasmutarne il significato e questo atteggiamento volto a cambiare, non a distruggere, emerge bene dal titolo di un'opera del 1885-86 intitolata Al di là del bene e del male, da cui si evince facilmente come l'uomo, smontata la morale, sia tenuto a collocarsi al di là di quelli che la tradizione ha additato come "bene" e "male", liberandosi in tal modo dei valori "divini" imposti dall'esterno e dannosi per la vita: questi vengono sostituiti da nuovi valori che l'uomo stesso si dà, trasformandosi così in un "creatore di valori". Non si subiscono più in modo passivo i valori "divini", ma si vivono in modo gioioso e gaio quelli nuovi, terreni a tutti gli effetti (l'opera di Nietzsche è pervasa da costanti inviti all'umanità a restare fedele alla terra).

Nietzsche ritratto da Munch
In base alle considerazioni fin'ora illustrate, Nietzsche può così arrivare ad affermare che "Dio è morto": in molti si son chiesti perchè non dica, molto più semplicemente, che non esiste, ma in realtà il suo atteggiamento è profondamente motivato dal suo stesso impianto filosofico. Infatti, ripercorrendo brevemente il suo percorso, egli ha indirizzato la sua ricerca sull'origine della morale attraverso l'impiego della scienza e ha scoperto che tutti quei valori morali, da sempre esaltati come divini, in verità hanno un'origine fin troppo umana, ma nella prospettiva nietzschena rientra nella tradizionale "morale" anche l'esigenza di distinguere il vero dal falso ed è a questo proposito che affiora un paradosso interessante nel suo pensiero, paradosso che qualche studioso ha voluto connettere alla follia nietzscheana: la ricerca condotta sulla genealogia della morale si basa anch'essa su quella spinta alla ricerca della verità che costituisce un punto cardinale della civiltà occidentale (e trova la sua massima espressione nella celebre espressione di Aristotele secondo cui l'uomo tende per natura alla verità); da tale indagine si scopriva che la verità non esiste e lo stesso valore morale che ci ha indotti a tale ricerca rivela la propria inconsistenza, quasi come se l'unica verità fosse l'inesistenza di una verità. E, poichè credere in Dio significa riporre tutti i valori morali (bontà, verità, ecc) in un solo ente, negarne l'esistenza vorrebbe dire, a sua volta, riproporre una verità e quindi ritirare in ballo l'esistenza di Dio, che è appunto la sintesi di tutti i valori morali (tra cui la verità): in altri termini, se Nietzsche avesse detto "Dio non esiste", avrebbe riproposto una nuova verità (la non-esistenza di Dio) e si sarebbe trovato incastrato dalla sua affermazione, perchè laddove c'è una verità, là c'è anche Dio.

Ecco perchè Nietzsche preferisce usare un'espressione più indiretta e sfumata, priva di implicazioni ontologiche: asserendo che Dio è morto, Nietzsche ci sta suggerendo che non ci serve più e da ciò emerge l'idea (fortissima in Così parlò Zarathustra) del "congedarsi da Dio"; certo, ci sono stati momenti in cui Dio ha avuto un senso e, del resto, Nietzsche esamina (nella Genealogia della morale) l'origine della morale senza scagliarsi contro di essa, ma anzi riconoscendo che, in determinati periodi storici, è stata necessaria e ha avuto un senso. Più nello specifico, è il progresso che ha reso sempre più possibile la vita senza l'arsenale divino e morale, fino ad arrivare al nichilismo attivo, in cui si smarrisce ogni rimpianto per tali valori; e un ruolo di primissimo piano è stato svolto dalla tecnologia: l'uomo, infatti, finchè non è stato in grado di dominare materialmente la realtà, ha sentito l'esigenza di imporsi su di essa almeno concettualmente con l'idea di Dio e della morale. Ma poi, grazie al progresso e alla tecnologia, egli ha esteso il proprio dominio materiale sulla realtà e la validità di concetti come "Dio" e "morale" si è sgretolata, a tal punto che ancora oggi le società più evolute sono quelle dotate di regole meno fisse.

Non si tratta, pertanto, di distruggere brutalmente la morale e Dio, ma semplicemente di assumere nei loro confronti quell' atteggiamento di congedo calmo e sereno che si attua nel momento in cui ci si accorge che quelle cose, un tempo indispensabili, ora non servono più e possiamo liberarcene in tutta tranquillità (l'idea di "crepuscolo degli idoli", come recita il titolo di un'altra opera, del 1888, rende bene l'idea di come i valori tradizionali non vengano violentemente distrutti, ma di come tramontino).

L'odio nei confronti della morale e della religione, dice Nietzsche, può solo scaturire in seno al nichilismo passivo, quando cioè vengono ancora sentite forti e, in fondo, se ne sente ancora il bisogno: questo atteggiamento di transizione viene paragonato a quello del cane appena liberato che ha ancora sul collo il segno del collare. E dopo che la morale e la religione sono giunti al loro crepuscolo, l'uomo che si è congedato da esse è il superuomo : "morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva" (Così parlò Zarathustra).

Tuttavia, al termine superuomo, destinato a diventare un mito per le generazioni successive a Nietzsche e ad essere soggetto a clamorosi fraintendimenti, è preferibile usare quello di "oltreuomo", come ha sottolineato Vattimo, proprio per distinguere la concezione nietzscheana dalle poco fedeli interpretazioni fascistoidi e dannunziane, anche se qualche spunto in tale direzione compare, qua e là, nelle stesse opere nietzscheane, soprattutto quando il folgorante profeta del superuomo si schiera contro le morali dei deboli; anche se, ad onor del vero, pur non approvando il socialismo come dottrina, in qualche aforisma guarda con simpatia al movimento operaio perchè, a differenza della sonnolenta borghesia, è animato da una forza particolarmente vitalistica capace di creare nuovi valori.

Fondamentalmente, l'oltreuomo non è un essere superiore agli altri, ma la nuova figura che l'uomo dovrà assumere in futuro e Nietzsche se ne fa profeta soprattutto in Così parlò Zarathustra, un libro enigmatico ("un libro per tutti e per nessuno" avverte il sottotitolo) che, come abbiamo accennato, si configura come una sorta di parodia del Vangelo in cui, oltre a capovolgere il testo sacro (viene propagandata una contro-religione), sceglie come protagonista quello Zarathustra, fondatore della religione persiana, che aveva contrapposto in modo nettissimo il bene al male. Nietzsche tramuta questo personaggio storico che aveva dato la codificazione più netta della morale in profeta di un'oltre-religione dell'essere al di là del bene e del male. Ma Nietzsche, per bocca di questo nuovo "profeta all'incontrario", non vuole imporsi come fondatore di una nuova religione, poichè ciò non costituirebbe altro che una nuova divinizzazione di valori: " non c'é nulla in me del fondatore di religioni: non voglio credenti, non parlo alle masse; ho paura che un giorno mi facciano santo " (Ecce homo).

L'unica cosa che Zarathustra insegna è di non accettare insegnamenti, ma di creare nuovi valori: egli profetizza la venuta del superuomo, ovvero dell'uomo del futuro ("Ancora non é esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e due nudi, l'uomo più grande e il più meschino. Sono ancora troppo simili l'uno all'altro. In verità anche il più grande io l'ho trovato troppo umano!") che si innesta nella civiltà postmoderna: vi sarà sì una fase provvisoria in cui esisteranno solo pochi oltreuomini in grado di cogliere come procede il futuro, ma ciò che li caratterizzerà sarà quel senso di "malattia" e di inattualità che ha accompagnato Nietzsche stesso per tutta la sua vita fino a culminare nella follia.

Il superuomo sarà un essere libero, che agirà per realizzare se stesso. E' un essere che ama la vita, che non si vergogna dei propri sensi e vuole la gioia e la felicità. E' un essere "fedele alla terra", alla propria natura corporea e materiale, ai propri istinti e bisogni. La "fedeltà alla terra" è fedeltà alla vita e al vivere con pienezza, è esaltazione della salute e sanità del corpo, è altresì affermazione di una volontà creatrice che istituisce valori nuovi (ecco il vero significato della volontà di potenza).

Non più "tu devi", ma "io voglio".

Soprattutto, l'oltreuomo trasvaluta tutti i valori e ne crea di nuovi, facendo della propria vita un'opera d'arte: e in Così parlò Zarathustra troviamo immagini ricorrenti , da cui traspare come l'oltreuomo sappia amare e trasmettere agli altri la gioia che deriva dalla propria piena realizzazione; il ridere e il danzare sono le sue prerogative peculiari: dopo aver smontato la verità, crolla inevitabilmente anche l'essere, giacchè la verità altro non è se non disvelamento dell'essere, e quando Nietzsche dice che "l'essere manaca" si avvicina soprattutto alle posizioni di Gorgia, il quale, dopo aver dimostrato che l'essere non è e che se anche fosse non sarebbe conoscibile e, se anche fosse conoscibile, comunque sarebbe incomunicabile, aveva dato una valutazione suprema dell'arte poichè, in assenza di una verità, l'artista non imita (come invece credeva Platone), ma crea e inganna; il discorso di Nietzsche è molto affine a quello gorgiano e, interpretando l'intera vita come un'opera d'arte, ciò che l'uomo crea diventa un valore assoluto e autonomo: in questa prospettiva, la risata e la danza incarnano la leggerezza dell'oltreuomo, il suo poggiare non sull'essere, ma sul vuoto simboleggiano il suo saper "vivere in superficie", quasi camminando sulle acque, proprio in virtù del venir meno di quella che Kant chiamava "cosa in sè" ed è proprio in questa prospettiva che uno dei più gravi pericoli è costituito dallo "spirito di gravità".

Costante è anche l'immagine del volo, che ben esprime la leggerezza: "colui che un giorno insegnerà il volo agli uomini, avrà spostato tutte le pietre di confine; esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola 'la leggera'"; e Nietzsche può così affermare che "l'uomo è un cavo teso fra la bestia e il superuomo [... ] é qualcosa che deve essere superato", ma tale cavo è sospeso nel vuoto ed è perciò un passaggio arduo e rischioso (non a caso il funambolo presente in Così parlò Zarathustra perde l'equilibrio e cade).

Sempre dalla lettura di Così parlò Zarathustra emergono altri concetti chiave della filosofia nietzschena, come ad esempio quello di "volontà di potenza" e di "eterno ritorno". In particolare, la volontà di potenza (a cui Nietzsche dedica un'opera intitolata, appunto, La volontà di potenza) è in un certo senso l'erede remoto della volontà schopenhaueriana: la stessa opera La nascita della tragedia era intrisa di concezioni schopenhaueriane e, soprattutto, l'elemento dionisiaco era quello in grado di cogliere la forza irrazionale che governa la realtà e che finiva per identificarsi con la volontà di Schopenhauer.

Tuttavia, con la nozione di "volontà di potenza" Nietzsche si discosta dall'insegnamento del filosofo pessimista: come senz'altro si ricorderà, Schopenhauer insisteva vivamente sulla necessità di capovolgere la volontà in nolontà, quasi come se si dovesse sfuggire alla volontà stessa; ora, a partire da La nascita della tragedia, Nietzsche sostiene invece che si deve accettare fino in fondo la tragicità dell'esistenza e trovare una specie di gioia paradossale nel vivere il caos fino in fondo. In altri termini, se per Schopenhauer si deve sconfiggere la tragicità esistenziale rifiutandola, per Nietzsche la si deve vincere accettandola fino in fondo, in ogni sua sfumatura. E, con l'avvento del nichilismo, la mancanza di un senso assoluto finisce, secondo Nietzsche, per far assumere un senso assoluto proprio a quella realtà superficiale che è il mondo che ci circonda. E allora il concetto di volontà si colora di nuovi significati: in primo luogo, per Schopenhauer la volontà è l'unica cosa che esista veramente, come per Spinoza l'unica vera cosa esistente era la "Sostanza"; e per questo il discorso schopenhaueriano era metafisico a tutti gli effetti e per Nietzsche ogni discorso metafisico è del tutto inaccettabile, ovvero non si possono più fare affermazioni sulla struttura della realtà (come invece facevano Schopenhauer o Hegel) poichè, respinto il concetto di verità, ciò non ha più senso.

L'oltreuomo si trova così nella situazione in cui non ci sono più l'essere nè i valori prestabiliti, e ad esistere sono solamente le interpretazioni del mondo e la nozione di interpetrazione (che fa di Nietzsche uno dei padri del pensiero ermeneutico) è originalissima: non si tratta di interpretare la verità sotto i diversi e legittimi, ma di per sè non sufficienti, punti di vista con cui si può guardare ad essa, bensì, ci sono solo interpretazioni del mondo ma non c'è più il mondo da interpretare, c'è solo più l'immagine del mondo: e Nietzsche può affermare che "non esistono fatti, ma solo interpretazioni".

Non vi è una verità oggettiva da guardare sotto diversi profili, ma vi sono solo più i punti di vista: e se non c'è più il mondo ("l'essere manca"), cosa permette di dire che un'interpretazione è più valida di un'altra? Qui nuovamente emerge il concetto cardinale della filosofia nietzscheana: la vita; le interpretazioni, infatti, sono migliori o peggiori non perchè corrispondano di più o di meno ad una presunta verità, ma nella misura in cui sono più "potenti", più convincenti, più capaci di muovere e di sostenere la vita (e questo spiega l'apprezzamento di Nietzsche per il movimento operaio). Venuto meno il mondo, esso è sostituito, potremmo dire, da un campo nel quale diversi centri di forza si confrontano tra di loro e tali centri di forza altro non sono se non le diverse interpretazioni di quel mondo che non c'è: ci saranno diverse immagini di valori, di interpretazione della realtà, e così via, e possono di volta in volta prevalere le une sulle altre proprio perchè manca la realtà con cui confrontarsi e l'unico criterio che permette ad un'interpretazione di trionfare sulle altre è basato sulla vitalità.

Pertanto un'interpretazione che stimoli la vita tenderà a prevalere sulle altre e proprio in questo è racchiuso il concetto di volontà di potenza: è questo tentativo di affermare determinati valori a danno di altri, quasi il centro di un campo di forza, non una "cosa" (come invece era in Schopenhauer). Ma è bene notare come la volontà di potenza non sia volontà di esistere, poichè, propriamente, non c'è nulla che esista, ma è, invece, volontà di affermarsi (il martire cristiano non muore per esistere, ma per affermarsi); e questo ci permette di capire come, al di là di qualche sbavatura qua e là del pensiero nietzscheano, la volontà di potenza non si affermi mai in modo violento: viene seguita perchè dà un'interpretazione più forte della realtà, non perchè si impone con la violenza sui più deboli (come credevano i nazisti).

E l'ultimo grande concetto presente in Così parlò Zarathustra è quello di eterno ritorno: tra i bislacchi personaggi che accompagnano Zarathustra nella sua avventura, vi è anche un nano che espone tale dottrina, secondo cui tutto ritorna su se stesso e per cui tutto quanto accade ora è già accaduto un'infinità di volte nel passato e accadrà un'infinità di volte nel futuro. Nel formulare questa strana teoria, Nietzsche si basa anche su studi scientifici e, in particolare, sulla constatazione che meccanicisticamente le possibili composizioni della materia, per quanto numerose, si esauriscono e, dopo esserci state tutte, ritorna quella di partenza.

Nella poliedricità caleidoscopica della filosofia nietzscheana, suona quasi banale questa teoria già esposta similmente dagli Stoici: tuttavia, gli animali che accompagnano Zarathustra, ad un certo punto, intonano una canzone il cui motivo è quello appunto dell'eterno ritorno, il cui significato profondo, però, non è banalmente quello del ritorno perpetuo delle medesime cose, ma è un significato recondito e profondo: tant'è che Zarathustra, in una narrazione in cui aleggia un clima onirico, racconta di aver avuto una visione e di aver visto un pastore che dormiva e a cui entra in bocca un serpente; Zarathustra cerca di aiutarlo ma, non riuscendoci, lo invita a mordere il serpente e così si salva e la vicenda si chiude con una risata liberatoria del pastore.

Quale è il significato di ciò? Il serpente che si morde la coda simboleggia il tempo concepito come ciclico e che in un primo tempo può essere concepito come un qualcosa di soffocante, perchè l'idea che tutto ritorni è insostenibile poichè nessuno vorrebbe ripetere all'infinito la propria vita, proprio perchè la nostra vita non è così perfetta da poter aspirare ad essere desiderata per l'eternità.

Il morso al serpente sta a significare che è vero che la dottrina dell'eterno ritorno può essere soffocante, ma solo per chi ha un'esperienza di vita non pienamente realizzata. L'oltreuomo, invece, che sa vivere in superficie e vivere pienamente la sua esistenza come un'opera d'arte, può per davvero desiderare di riviverla in eterno e tagliar la testa al serpente vuol dire spezzare il circolo del tempo che ritorna su se stesso e inserirsi in questo circolo ma se tutto torna su se stesso, si può obiettare, non c'è la possibilità di entrare in questo circolo; e questo è l'apparente paradosso della dottrina dell'eterno ritorno. E' vero che non ci si può infilare nel circolo a nostro piacimento, ma tutto si spiega se, come ci rammenta Zarathustra, teniamo presente che le apparenze ingannano e la teoria dell'eterno ritorno è diversa da come sembra.

Del resto, sarebbe assurdo che ora Nietzsche ci dicesse, prospettando i cicli dell'eterno ritorno, come procede il mondo: secondo la logica della volontà di potenza, egli vuole proporci un'interpretazione particolarmente forte del mondo, non una verità, ma un'immagine del mondo che valga la pena di essere vissuta; in altri termini, ci sta dicendo che se ci mettiamo nella prospettiva dell'oltreuomo e se quindi sappiamo vivere pienamente la vita, varrà la pena anche decidere di vivere come se la vita dovesse eternamente ritornare, momento per momento.

Soltanto una vita pienamente vissuta si può desiderare che ritorni in eterno, ma solamente un qualcosa concepito come eternamente ritornante assume un valore assoluto tale da poter vivere pienamente la vita: nella dottrina del tempo lineare, ogni istante distrugge quello precedente, ogni cosa è travolta da quella che viene dopo e quindi se accetto tale dottrina non posso vivere pienamente, perchè so che ogni istante sarà distrutto da quello successivo; nella dottrina dell'eterno ritorno, invece, posso vivere la vita fino in fondo perchè ogni cosa che faccio ha un valore assoluto, poichè si sfugge tempo lineare per cui ogni cosa che si fa viene mangiata (e quindi privata di significato) da quella successiva (il mito di "Cronos", ovvero il tempo, che divora i propri figli).

Se l'eterno ritorno viene considerato non come dottrina metafisica, ma come interpretazione, allora il paradosso per cui si entra nel circolo si dilegua: posso decidere di vivere come se ci fosse l'eterno ritorno, desiderando con ardore di rivivere ogni singolo istante della vita per l'eternità (amor fati), quasi come se al "no" alla vita di Schopenhauer si sostituisse un "sì" eterno ad essa: "la mia formula per la grandezza dell'uomo é amor fati: che cioè non si vuole nulla diverso da quello che é, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l'eternità " (Ecce Homo).

E così, la fase precedente al nichilismo, quella cioè dei valori morali e di Dio, simboleggia l'eternità, mentre quella del nichilismo passivo, privo di valori assoluti, è il tempo lineare che tutto travolge e nulla ha senso; l'ultima fase, quella del nichilismo attivo, è il divenire continuo che assume valore assoluto e tutto ciò è quanto accade nella dottrina dell'eterno ritorno, la quale fa assumere dignità di assoluto al divenire, tutto fluisce ma in modo circolare. Così si capisce la vicenda del pastore: soffocato in principio dall'interpretazione banalizzante dell'eterno ritorno, riesce ad entrare nel circolo dell'eterno ritorno e col riso esprime la sua piena felicità.






Un giovane Nietzsche

DEFINENDO IL NICHILISMO


Il nichilismo (volontà del nulla) è un orientamento filosofico che nega l'esistenza di valori e di realtà comunemente ammessi. La diffusione del termine risale alla fine del '700 (latino NIHIL=nulla) quando Jacobi caratterizzò come nichilista la filosofia trascendentale di Kant e soprattutto la ripresa fattane da Fichte. Secondo Jacobi il sistema della pura ragione "annichila ogni cosa che sussista fuori di sé".

Successivamente Schopenhauer riprese in chiave nichilista il problema della conoscibilità e dell'essenza del reale. La realtà fenomenica è l'apparenza nullificante e dolorosa della Volontà irrazionale e inconscia che origina il cosmo intero. L'uomo può liberarsi solo cessando di volere la vita e il volere stesso, per abbracciare il nulla.

Con Dostoevskij il termine indicava la perdita dei valori tradizionali cristiani nel mondo moderno, il destino della modernità dopo "la morte di Dio". Per Dostoevskij la morte e la negazione di Dio da un lato, e la fede nel Dio negato ma redentore proprio perché sofferente (capace di salvare la sofferenza, prendendola su di sé, dall'insensatezza e dal vuoto nulla) dall'altro, avrebbero potuto ricondurre, attraverso il crogiuolo del nichilismo, il cristianesimo al rinnovamento.

Per Nietzsche il nichilismo appartiene alla vicenda del cristianesimo, che insegnando a cercare la verità in un altrove metafisico, condanna il mondo e Dio stesso al nulla.

Il termine di nichilismo fu usato da Nietzsche in tre occasioni principali: nel passato è esistito un nichilismo intrinseco a tutte le metafisiche, dato dal prevalere in esse di un atteggiamento contrario alla vita. Secondo Nietzsche tutti i sistemi etici, le religioni e le filosofie elaborate nell'intera storia dell'Occidente sono interpretabili come stratagemmi elaborati per infondere sicurezza alla gente, a coloro che non riescono ad accettare la natura imprevedibile della vita e quindi si rifugiano in un mondo trascendente; sono reazioni protettive di un uomo insicuro, spaventato dalla propria stessa natura (dalle passioni, dall'istinto) ed incapace di accettarsi. La massima espressione di questa nullificazione dell'uomo è stata la religione ebraico-cristiana: l'etica dell'amore, della pietà e della mortificazione del corpo in vista di una ipotetica felicità ultraterrena è solo una perversione dello spirito, una patologia dell'umanità; in una seconda accezione Nietzsche intese con nichilismo la morte di Dio, ossia la condizione dell'uomo moderno, che a partire dall'Illuminismo ed a causa di una "accresciuta potenza dello spirito", crede sempre di meno nei valori tradizionali. E' una crisi di una civiltà che Nietzsche riassume con la formula "Dio è morto", dove Dio è il simbolo di tutte le fedi e di tutte le metafisiche.

Nietzsche descrisse in termini efficaci questo nichilismo (la crisi di valori) dell'epoca attuale: notò ad esempio come il venir meno di ogni certezza, l'abbandono di ogni prospettiva religiosa o oltremondana, provochino nell'uomo contemporaneo un forte senso di fallimento e smarrimento esistenziale. Ne consegue una nostalgia del passato, il rimpianto per quel periodo felice in cui ancora si credeva alle favole metafisiche. L'uomo moderno non crede più, ma vorrebbe credere; d'altra parte non sa più in cosa credere e non riesce più ad usare i miti ed i riti del passato. Finisce quindi con l'inventarsene di nuovi, crea nuove fedi in sostituzione delle antiche spesso investendo di senso religioso le ideologie politiche. Nelle esperienze tragiche della storia moderna, nel proliferare delle sette religiose, nel persistere di credenze magiche (astrologia, parapsicologia, ufologia) e persino mistiche (le apparizioni della Madonna) si può vedere un disperato nichilismo, una "volontà di credere ad ogni costo" a qualcosa; esiste infine per Nietzsche, un nichilismo attivo e positivo: l'atteggiamento proprio dell'oltreuomo che accetta la "morte di Dio" e con essa la fine di ogni metafisica ed è capace di reggerne psicologicamente le conseguenze.

In questo senso Nietzsche rivendicò per sé il titolo di primo nichilista.




Nietzsche piu' giovane
COSÌ NIETZSCHE PARLA DI SÉ:


"Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l'avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa e' qui all'opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere. - Chi prende qui la parola sinora non ha fatto altro che riflettere: come filosofo ed eremita d'istinto, che ha trovato vantaggio nell'appartarsi, nel restar fuori, nel ritardare, come uno spirito audace, indagatore e tentatore che già si e' smarrito in ogni labirinto dell'avvenire; …che guarda indietro mentre narra ciò che avverrà, come il primo nichilista compiuto d'Europa, che ha già vissuto in sé sino il nichilismo sino alla fine, e ha il nichilismo dietro di sé, sotto di se, fuori di se" (Wille zur Macht)

Il filosofo individua accanto a un "nichilismo attivo", segno di forza e crescita dello spirito, anche un "nichilismo passivo" determinato dall'attenuarsi dell'energia dello spirito e che comporta l'accettazione rassegnata della crisi dell'epoca. Sotto questi riguardi, il nichilismo si rivela chiuso in un equivoco che lascia aperta la possibilità di essere "per l'una o per l'altra, ma anche per l'una e per l'altra".

1. Nichilismo come segno della cresciuta potenza dello spirito: come nichilismo attivo. Può essere un segno di forza: l’energia dello spirito può essere cresciuta tanto, che i fini sinora perseguiti ("convinzioni, articoli di fede") le riescano inadeguati.[...]

2. Nichilismo come declino e regresso della potenza dello spirito: il nichilismo passivo. Può essere un segno di debolezza: l’energia dello spirito è stanca. Presupposti di quest’ipotesi: che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una "cosa in sé"; ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo. Esso ripone il valore delle cose proprio nel fatto che a tale valore non corrisponda né abbia corrisposto nessuna realtà, ma solo un sintomo di forza da parte di chi pone il valore, una semplificazione ai fini della vita.

(tratto da: F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Id., Opere complete, trad. it. di S. Giametta, vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano 1971, pp. 12-14)





Sketch di Stirner
GIORGIO PENZO PARLA DI "NIETZSCHE E IL NICHILISMO"

Da G. Penzo, Nietzsche e il nichilismo in "XÁOS. Giornale di confine", Anno I, n.1 2002


La tematica del nichilismo si rivela come la tematica di fondo nella cultura del nostro secolo. Essa investe il singolo e la storia stessa, anzi si confonde con il problema di tutta la cultura dell’Occidente, investendo pure lo stesso destino dell’uomo. Così, nel mettere a fuoco il fondamento del nichilismo, si ha modo di vedere come esso non includa in linea d’essenza un senso negativo ma piuttosto un senso positivo. Il momento positivo e quello negativo del nichilismo possono ovviamente subire nei rappresentanti di tale problematica un approfondimento a diversi livelli.

Si può cominciare a chiarire il fenomeno del nichilismo con una prima considerazione di carattere generale, secondo la quale si può distinguere nel nichilismo un duplice aspetto, l'aspetto storico e storico-sociale e l'aspetto più propriamente filosofico. Questi due aspetti s’intrecciano tra di loro. Se si apre il discorso sul nichilismo storico-sociale, si pensa per lo più al nichilismo anarchico, mentre, se si parla del nichilismo filosofico, s’intende per lo più il nichilismo esistenziale.

Quando si prende in considerazione l’aspetto anarchico del nichilismo, si pensa in un primo luogo all’anarchismo russo conosciuto come populismo russo. E’ un movimento che sorge in Russia verso la metà dell’Ottocento come reazione al dispotismo zarista. Si possono fare i nomi di alcuni grandi scrittori come L. Tolstoj, F. Dostoevskij e I. Turgenev. In secondo luogo si pensa a quelle note espressioni teoriche dell’anarchismo che si sviluppano tra il 1840 e il 1850, come quelle di P. J. Proudhon, M. Bakunin e P. Kropotkin. Quale maestro spirituale di tale anarchismo teorico si è soliti porre Max Stirner (cfr. anche il breve articolo su NIETZSCHE E STIRNER più sotto). Questo giudizio su Stirner anarchico, che purtroppo è divenuto corrente nella cultura del nostro secolo, dev’essere messo in discussione.

A mio avviso, il nichilismo di Stirner può considerarsi come il momento di passaggio tra il nichilismo anarchico e il nichilismo esistenziale, poichè rappresenta ad un tempo questi due aspetti del nichilismo. L’egoismo di Stirner, messo a fuoco nella sua opera fondamentale del 1845, L’unico e la sua proprietà, rappresenta un nuovo modo di riproporre il fondamento dell’esistenza. Si tratta dell’indipendenza da ogni oggetto esterno nel quale può andare smarrita la propria libertà. Se con il suo nichilismo “assoluto” Stirner si presenta come il più feroce demolitore di tutti gli idoli divini e umani che la storia del pensiero occidentale ricordi, si deve riconoscere che egli opera questa demolizione con il solo scopo di mantenere intatta l’indipendenza dell’io e quindi la sua libertà a livello di fondamento. Sotto quest’aspetto filosofico il nichilismo di Stirner è alle radici di quello di Nietzsche, anche se questi non fa il nome di Stirner. Entrambi vogliono rendere problematico ogni legame con il pensiero metafisico tradizionale. Però il modo di portare avanti tale discorso è diverso.

Anche se si cerca di mettere in crisi ogni aspetto del razionalismo concettuale, Stirner rimane ancora legato alla ragione illuministica. Egli mette in luce la dimensione paradossale di tale ragione qualora venga portata fino alle sue ultime conseguenze, senza poter mostrare lo spazio, la «trascendenza», dov’è possibile superare tale stadio paradossale che apre la via a un’angoscia piena di disperazione. Con il suo nichilismo invece Nietzsche supera il momento razionalistico del pensare, rivelandosi uno spirito essenzialmente anti-illuminista. Si può così cogliere pure la profonda diversità del nichilismo nietzscheano rispetto a quello delineato da Turgenev, appunto perché pure questo rimane chiuso in una concezione illuministica della ragione.

Turgenev è il primo a parlare di nichilismo nel suo romanzo Padri e figli del 1861. Egli descrive il protagonista, il giovane medico di provincia Bazàrov, come un nichilista. Più precisamente si legge: “Nichilista è un uomo che non s’inchina dinanzi ad alcuna autorità, che non accetta alcun principio alla cieca, qualunque sia il rispetto che lo circonda”. Come si vede, pure questo nichilismo tipico dello spirito libertario russo è legato a un modo di pensare illuministico. Il nichilismo di Nietzsche è ben diverso. Questi non s'appella alle leggi logiche del puro intelletto conoscente quale ultima istanza, ma intende portare di continuo il singolo di fronte al suo fondamento ultimo. In tal modo intende trascendere le pure leggi dell’intelletto, mostrando in questa “trascendenza” i limiti stessi di tali leggi logiche. Solo in questa coscienza del limite si dischiude il nuovo fondamento della verità. Si tratta d’una trascendenza a livello esistenziale. Se Nietzsche si definisce uno spirito libero, egli ci tiene a precisare la sua diversità di fondo rispetto ai liberi pensatori che si nutrono ancora d’una fede illuministica, cioè d’una fede nella scienza. Per Nietzsche, tale fede è ancora metafisica, come si può leggere nell’aforisma 344 del quinto libro dello scritto La gaia scienza. Nell’aforisma 347 dello stesso scritto egli fa notare che nel “nichilismo alla moda di Pietroburgo”, cioè nel “credere di non credere”, si rivela pur sempre un bisogno di fede nel senso di stabilità, che rimane perciò anch’essa un’espressione di fanatismo a livello scientifico.

Di fronte a questa realtà ambigua dello spirito libero, tipico dell’illuminismo, Nietzsche dice di se stesso d’essere lo spirito libero per eccellenza. Si tratta di quello spirito che prende congedo da ogni fede in una qualsiasi concezione del mondo che si fondi sul concetto, per poter “danzare perfino negli abissi”. Lo spirito libero dell’illuminismo sarebbe in fondo ancora uno spirito borghese. Tra il nichilismo alla moda di Pietroburgo e quello di Nietzsche c’è un salto di qualità. La polemica nei confronti dei valori tradizionali tramandati non è fine a se stessa, come si può constatare sotto alcuni aspetti pure nel nichilismo stirneriano. In tutte e due le dimensioni del nichilismo, quello di Stirner e quello di Nietzsche, si parla della morte del Dio della metafisica. Ma se il nichilismo stirneriano porta il singolo di fronte “a nulla”, il nichilismo nietzscheano porta il singolo di fronte “al nulla”. Questa dimensione del nulla è appunto quella tipica della trascendenza che si confonde con la realtà del sacro. In tal modo si supera il nichilismo disperato di Stirner.

Con Nietzsche si è di fronte a un filosofare che procede in modo circolare. Da una parte, il singolo viene portato di fronte alla nausea e alla disperazione, in quanto prende coscienza dei limiti del conoscere a livello scientifico, dall’altra, proprio nel prendere coscienza di tali limiti, il pensare s’apre alla dimensione del non-limite, del nulla. S’apre cioè all’orizzonte d’una trascendenza che si può definire esistenziale. Nel superare lo stato di disperazione, l’uomo incontra in questo orizzonte del nulla il divino. Tale nuova trascendenza dopo la morte di Dio, dove emerge una nuova dimensione del sacro, rappresenta l’aspetto positivo del nichilismo nietzscheano. Questo investe il fondamento ultimo dell’uomo, rivelandosi così a livello di destino.

Se si dice che Nietzsche porta il singolo di fronte ai limiti del conoscere per trascendere nell’orizzonte del non-conoscere, non si vuole dire che Nietzsche sia critico della scienza. Egli critica solo la pretesa della scienza qualora venga considerata quale fondamento d’ogni valore. Si tratta d’una critica al conoscere scientifico come sapere totalizzante. In tal modo si può cogliere nel nichilismo positivo di Nietzsche il tentativo di superare da una parte l’arroganza del pensiero metafisico, che ha la pretesa di cogliere con le categorie stesse del pensiero scientifico la realtà del divino, e di superare dall’altra pure l’arroganza del pensiero scientifico come sapere totalizzante, che pretende invece d’eliminare il sacro in quanto non oggettivo. Se si tengono presenti queste considerazioni sul nichilismo positivo di Nietzsche inteso come problema del senso dell’esistere, ci si rende conto perché Nietzsche consideri il nichilismo sotto tre aspetti.

Sotto il primo aspetto, il nichilismo può essere inteso in senso del tutto negativo e può essere definito come nichilismo assoluto. In questo contesto il nichilismo coincide con l’annullamento della stessa volontà. Tale modo d’essere del nichilismo, che trova la sua espressione più radicale nel suicidio, viene ripudiato da Nietzsche per l’ovvio motivo che l’essenza stessa della vita si manifesta come volontà-di. Si tratta in fondo d’un’espressione impropria del nichilismo. Propriamente parlando, il nichilismo può essere considerato sotto due aspetti che dicono entrambi il momento positivo di tale fenomeno. In questo contesto Nietzsche parla d’un nichilismo passivo e d’un nichilismo attivo. Il nichilismo passivo non coincide con il piano della non-volontà ma con ciò che Nietzsche stesso definisce come volontà - del - nulla. Si tratta del nichilismo tipico della metafisica occidentale cristiana che egli definisce come ideale ascetico. Nietzsche accetta tale ideale solo per il fatto che dà all’esistere dell’uomo un senso. Solo grazie a tale concezione l’uomo non soffre del problema del significato. Alla fine dell’opera La genealogia della morale si legge: “L’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere”.

D’altra parte Nietzsche si mostra critico pure di tale concezione nichilistica poiché la volontà-di si rivela in questa come volontà-del-nulla. Quindi tale nichilismo non supera la dimensione negativa, anche se questo momento negativo non è assoluto ma solo relativo. Il terzo aspetto del nichilismo, quello attivo, rappresenta la dimensione autentica di tale fenomeno, dato che in questa viene messo in luce il fondamento del nulla come volontà-di-potenza. In quest’espressione del nichilismo il momento positivo del nulla viene tematizzato nella messa in crisi del senso dell’esistere tipico della metafisica occidentale cristiana. Se pertanto il nichilismo attivo rappresenta l’aspetto di crisi del nichilismo passivo, si vede come in fondo questi due aspetti siano tra loro intrecciati in modo dialettico. Di qui il nucleo del pensiero filosofico di Nietzsche che può essere messo in luce proprio in una dialettica esistenziale che ha luogo nell’ambito dei due poli. E precisamente, da una parte il polo della volontà del nulla, che sarebbe rappresentato dalla metafisica occidentale che intende mettere in luce il fondamento dell’esistenza grazie all’intelletto conoscente. E dall’altra il polo della volontà-di-potenza che rappresenta la dimensione autentica del nulla. Tale volontà-di-potenza si chiarisce nel superamento della volontà del nulla tipica del pensiero metafisico. La dimensione del nulla propria della volontà-di-potenza si sottrae per essenza a ogni presa categoriale dell’intelletto conoscente, manifestandosi quale spazio del sacro autentico. Il nichilismo come volontà-di-potenza apre l’orizzonte del divino tipico della morte di Dio.

Nel nichilismo attivo la dimensione di volontà-di-potenza si chiarisce come più-di-potenza, che trova la sua espressione più completa nella cifra del superuomo. Questa cifra rappresenta l’espressione ultima del nichilismo attivo di Nietzsche. Grazie a questo Nietzsche intende superare lo stato di angoscia in cui si trova l’uomo del suo tempo, che assiste con panico al venire meno del sacro nella cultura. Quando nell’aforisma 343, che apre il libro quinto dell’opera La gaia scienza, Nietzsche delinea l’avanzare dell’ombra del nichilismo che copre tutta l’Europa, egli intende alludere appunto a questo lento scomparire del sacro. Presa coscienza di questo fatto, Nietzsche non si piega cadendo in un vuoto nichilismo, ma saluta assieme alla morte di Dio il nuovo «mattino» del pensiero. Questo non vuole più significare per l’uomo una nuova spiaggia di sicurezza, come poteva essere offerta dalle categorie concettuali che sono alla base del pensiero metafisico.

Il pensare di Nietzsche, che si confonde con il suo nichilismo positivo, è intrinsecamente insicurezza e rischio, e come tale deve rimanere problematico. Tale spazio dell’essere-nulla, come spazio del sacro, trova con Heidegger e Jaspers i due teorici fondamentali della filosofia dell’esistenza, un’espressione sistematica quanto mai profonda. In Holzwege Heidegger scrive che con il nichlismo non s’intende accennare a una corrente spirituale da affiancarsj ad altre, come per esempio al cristianesimo, all’umanesimo, all’illuminismo. Il nichilismo non è una corrente del pensiero occidentale ma, se è pensato nella sua essenza, è la “corrente fondamentale” della storia dell’Occidente. Secondo Heidegger si rimane limitati alla sola facciata “esterna” del nichilismo, se non si riesce a liberarsi dalla rappresentazione corrente che con il concetto di nichilismo si pensi a una pura e semplice negazione del Dio cristiano, quasi a un movimento d’opposizione contro il cristianesimo.

Tale rappresentazione corrente del nichilismo, che richiama subito la morte del Dio cristiano, è una rappresentazione ancora apologetico-cristiana, legata alla tradizione della Chiesa cattolica. Il senso del nichilismo deve essere visto solo nell’ambito in cui si svolge, cioè nell’ambito della metafisica stessa. Con il termine metafisica non si deve intendere una dottrina o una disciplina speciale della filosofia ma l’ente nella sua totalità, in quanto viene diviso in due mondi, uno terreno e uno sovraterreno. Questi sono concepiti in modo che il secondo venga a essere il fondamento del primo. Sotto quest’angolo visivo il nichilismo diventa “il processo fondamentale della storia dell’Occidente e l’interna logica di questa storia”. In questa interna logica il nichilismo di Nietzsche riveste secondo Heidegger un posto di primo piano, perché porta il pensiero metafisico al suo compimento.

Nel tratteggiare nelle sue linee essenziali il nichilismo di Heidegger si deve tener presente innanzi tutto che v’è un’affinità di fondo con il nichilismo di Nietzsche. Heidegger concorda in certo modo con Nietzsche quando sostiene la tesi che il nichilismo non è solo un fenomeno esistenziale ma è in primo luogo un fenomeno storico. Però sotto quest’aspetto storico si può vedere la distinzione del nichilismo heideggeriano rispetto a quello nietzscheano, dato che Heidegger mette a fuoco la storicità del nichilismo a partire dalla storia della metafisica. D’altra parte, pure Nietzsche tiene presente nelle sue riflessioni sull’essere la storia della metafisica occidentale quando propone per un ricupero dell’autenticità dell’essere un ritorno alla filosofia presocratica. Questo cammino viene battuto del resto pure da Heidegger, dato che anch’egli mostra una predilezione per i filosofi presocratici. Ma il discorso di Heidegger scava più a fondo in quanto non considera solo la storia del pensiero metafisico a partire dai suoi rappresentanti ma a partire dalla storicità stessa dell'essere.

Quest’aspetto del nichilismo heideggeriano manca nel nichilismo nietzscheano. La concezione dell’essere-nulla di Heidegger non esprime solo il sottrarsi dell’essere a ogni tentativo di rappresentazione, come aveva detto pure Nietzsche, ma esprime il “necessario” sottrarsi dell’essere a ogni rappresentazione. Questa “necessità” non può essere del tutto chiarita nel destino dell’uomo, in quanto riguarda lo stesso destino dell’essere. Quando Heidegger dice che l’essere si dà ed è “necessario” che si dia, egli dice pure che nel darsi si sottrae come essere per mostrarsi come ente. La verità dell’essere si rivela così a un tempo come disvelamento e come nascondimento. Questa verità dell’essere sfugge al pensiero metafisico e non viene colta in tutta la sua profondità nemmeno da Nietzsche. La storia dell’essere, come la considera Heidegger, si rivela così come la storia della dimenticanza dell’essere. Quest’assenza si precisa come dimenticanza della distinzione dell’essere rispetto all’ente. In altre parole, tale assenza si precisa come dimenticanza della differenza ontologica. Il darsi dell’essere, o meglio il necessario darsi dell’essere, viene colto nel pensiero metafisico solo nel suo aspetto di presenza, di luce, sottraendosi così come essere per rivelarsi come ente. Dell’essere viene colto solo l’aspetto di disvelamento e non già la dinamica polare di disvelamento e nascondimento ad un tempo.

Heidegger fa l’appunto critico pure a Nietzsche di non aver saputo superare del tutto la dimensione dell’essere tipica della metafisica tradizionale. E ciò perché il suo nichilismo sarebbe in fondo ancora legato alla rappresentazione dell’essere-nulla, anche se Nietzsche parla d’un capovolgimento della rappresentazione classica dell’essere. Spostando il fondamento dei valori dal mondo sovrasensibile al mondo sensibile, Nietzsche considera in fondo l’essere ancora come valore e quindi come ciò che può essere rappresentato. Nel secondo volume dell’opera Nietzsche Heidegger scrive: “Nietzsche riconosce il nichilismo come movimento della storia moderna occidentale, ma non riuscendo a pensare l’essenza del nulla, poiché non riesce a problematizzarla, deve essere annoverato tra i nichilisti classici”.

In Jaspers la tematica del nichilismo si rivela in modo essenziale nella stessa tematica della libertà che ci porta di fronte a una dimensione di essere-nulla intesa come trascendenza esistenziale. O più precisamente come trascendenza “esistentiva” che implica l’apertura dell’esistenza all’orizzonte dell’essere-nulla. Pure in Jaspers si possono vedere due modi d’essere del nichilismo, uno negativo e uno positivo, intesi anch’essi in modo dialetticamente polare. Sotto l’aspetto negativo il nichilismo esprime in senso generale il momento inautentico dell’essere che Jaspers coglie nell’orizzonte della fede. E poiché la dimensione inautentica della fede è considerata come superstizione, il momento negativo del nichilismo può essere colto in senso generale nel contesto della superstizione. In tale ambito il termine superstizione esprime il venir meno del momento del limite e di conseguenza il venir meno del momento della comunicazione, che rappresenta l’essenza stessa del filosofare di Jaspers. Considerata sotto quest’angolo visivo, tale dimensione negativa del nichilismo come superstizione appare in diverse forme.

Nell’ambito della fede teologica appare nella dimensione della fede in una rivelazione ben definita, mentre nell’ambito del conoscere scientifico appare là dove questo conoscere non viene inteso come tale, cioè solo come momento scientifico, ma come infatuazione. Più precisamente, quando tale conoscere si rivela quale pretesa di rivendicare a sé il dominio della verità. Così, i momenti di superstizione e d’infatuazione rappresentano la realtà inautentica del nichilismo. Essi esprimono da una parte l’orizzonte d’una trascendenza oggettivata o, che è lo stesso, l’orizzonte dogmatico della verità e dall’altra esprimono una verità con i caratteri d’assolutezza e d’esclusività. Con il nichilismo autentico, invece, la verità si chiarisce proprio nell’atto di superare la pretesa del possesso della verità in senso assoluto, sia questa una verità divina o una verità umana come quella tipica della scienza. In fondo, si tratta di mettere in luce in questi due contesti di verità il momento di confine. Il nichilismo jaspersiano in senso autentico o positivo esprime solo tale momento di confine, dato che nella concezione di essere come confine si può avere l’espressione dell’essere come comunicazione. Si tratta d’un equilibrio dialettico-polare. La realtà dell’essere come comunicazione può di continuo venir meno, con la conseguenza che la verità come libertà si trova esposta al pericolo di decadere a verità assoluta. Il nichilismo positivo di Jaspers esprime lo stesso suo filosofare.

Si è visto che il nichilismo esistenziale di Nietzsche, Heidegger e Jaspers e in certo modo pure Stirner, ponendoci di fronte al rapporto di fondo tra essere e nulla, ci pone di fronte al fondamento ultimo dell'esistenza. Ed allora, aprire un discorso sul nichilismo non vuol dire tanto trattare di una corrente filosofica contemporanea accanto ad altre, quanto vuol dire mettere a nudo in prima linea il problema di fondo che riguarda ogni uomo da vicino, che è appunto il problema del senso dell'esistere umano.





Max Stirner
NIETZSCHE E STIRNER


Il problema del negativo, della fine dell'esistenza, del nulla non è certo legato ad un'epoca particolare: esso, in quanto tale, fa parte del pensiero umano. In tutte le culture, la questione della finitezza, della temporalità, dei confini della vita s'impone come nucleo centrale: possiamo dire che uno dei pensieri fondanti i vari itinerari della conoscenza umana è proprio quello del negativo, del nulla. Infatti, le domande che si vedono dietro tutti gli interrogativi della filosofia, della religione e di altre forme del sapere sono le seguenti: verso dove andiamo? La meta finale è la vita? Siamo destinati a sparire nel nulla? C'è un senso nell'esistenza o è tutto casuale? Le risposte che indicano nel negativo l'origine e la conclusione dell'esistenza costituiscono quel pensiero filosofico, che viene definito come "nichilismo": esso nega che ci sia un senso nel nostro vivere, non vede un fondamento positivo della realtà, affermando che tutto è destinato a perire, che l'esistere viene dal nulla e va verso il nulla, che non c'è alcun fine nella vita dell'universo.

Nella nostra età, la filosofia nichilista appare dominante: la maggior parte delle correnti di pensiero del mondo contemporaneo dà risposte negative alle domande sull'esistenza. Ad esempio, c'è un filone che considera il soggetto umano come l'unico perno della realtà. Tale impostazione afferma che solo l'essere umano, con la sua forza individuale, può dare un senso alla vita, può creare dei valori: non esiste alcun essere assoluto, in grado di fondare il reale; non ci sono valori oggettivi e universali, buoni per tutti, ma esistono solo uomini cangianti, che, nel tempo, pongono ciò che è buono e ciò che non lo è. Uno dei massimi pensatori di questa filosofia è Nietzsche, che, nell'opera Gaia scienza, indica la "morte di Dio" come approdo della civiltà e della cultura contemporanee. Secondo il filosofo tedesco, finisce ogni fondamento oggettivo, ogni valore assoluto: Dio muore, in quanto, nella nuova prospettiva del presente e del futuro, non c'è più spazio per la metafisica, per una concezione che voglia parlare dell'origine della vita e dell'essere, per la religione, ma tutto sarà creato dal soggetto, vero "super-uomo". Lo stesso Cristianesimo, per il pensatore tedesco, si nutre di un passato improponibile, poiché, alla sua base, non c'è l'opera del soggetto, con le sue qualità, quindi l'esaltazione della vita, della creazione terrena, non c'è quella volontà positiva di costruire il nuovo mondo, che, per lui, è "volontà di potenza", ma c'è la negazione della forza umana, della vita terrena e delle sue possibilità.

Nietzsche afferma che, sulla stessa linea di Platone, la religione cristiana svaluta il mondo terreno, per esaltare solo la trascendenza, la dimensione della verità oggettiva; in questo modo, essa finisce per mortificare l'essere umano e, la sua volontà di fare, di creare, di progettare. Molto vicino a Nietzsche, per gli esiti del suo pensiero, è Max Stirner, con il suo testo "L'unico e la sua proprietà". Per lui, l'unica vera base della vita è l'io; tutto il resto rientra o nell'illusione o nella falsità. La vita umana, secondo il filosofo tedesco, attraversa varie fasi: dal "bambino realista", che cerca di costruire dei contatti con il reale, al "giovane idealista", che vede nell'idea il centro dell'esistenza, fino all'adulto, che trova se stesso scoprendo la potenza del proprio io.

Per Stirner, l'io è l'unica vera dimensione della realtà: non esistono verità oggettive, valori universali, esseri trascendenti. In questo modo, l'uomo è del tutto isolato, abbandonato a se stesso, privo di riferimenti: esso ha a che fare solo con il proprio piccolo io. Davanti a lui si apre il baratro del nulla, in quanto l'io, da solo, non può darsi un senso, fondarsi; nella sua filosofia, non c'è solo la morte di Dio, ma anche quella dell'uomo. Stirner afferma: "Io ho fondato la mia causa sul nulla". Nietzsche e Stirner, pur nella diversità degli stili, sono due esempi della cultura nichilistica imperante e, ancora oggi, sono due pensatori molto considerati. Entrambi, nei loro percorsi speculativi, si basano sul soggetto. Però, quest'ultimo non può essere fondamento di sé: esso è finito, limitato, in divenire, non può creare la realtà. Il soggetto, in quanto essere finito, proviene da un altro essere, che, essendo l'origine, è assoluto. Solo un essere assoluto può veramente creare. Alla base del reale, allora, possiamo vedere l'essere, non il nulla; tutto ciò che esiste trae l'esistenza da un'origine positiva, che trascende la dimensione del tempo e dello spazio. Inoltre, l'essere assoluto non è la "mortificazione" del mondo, come dice Nietzsche, a proposito del Cristianesimo, ma, anzi, è il vero significato della nostra dimensione immanente, il fondamento della realtà. Questo non vuol dire che il nulla sia un'illusione (come afferma Parmenide), poiché il negativo fa parte del finito, del divenire, del nostro essere; non si può negare la presenza del nulla, così come non si può negare la presenza della morte, delle ferite esistenziali, della malattia e della sofferenza, del male (come ci ricorda Pascal, che definisce l'uomo una "canna pensante"). Il discorso svolto ci fa dire, però, che il nulla non è il destino dell'uomo e della vita: esso è, in un certo senso, la "differenza" tra il nostro essere e l'essere assoluto, lo iato tra il tempo e l'eterno. Il nichilismo vede solo la faccia negativa del reale, confondendo i piani e mettendo il soggetto umano al posto dell'essere assoluto: il suo esito è la deformazione della realtà, come avviene per il "super-uomo" di Nietzsche, mostro di intelligenza ma fragile ed illuso di essere il creatore, o per l'"io" di Stirner, apparentemente gigantesco, in realtà inconsistente ed effimero.



[da: Il Giornale di Brescia-22 MAGGIO 2002]





Head of Epicurus
NIETZSCHE SU EPICURO


Nietzsche scrisse in La gaia scienza (af. 45): ”Sì, sono fiero di sentire il carattere di Epicuro in modo diverso, forse, da chiunque altro, e soprattutto di gustare in tutto ciò che di lui leggo e ascolto la gioia pomeridiana dell'antichità - vedo il suo occhio che guarda un vasto, albicante mare, oltre gli scogli delle coste su cui si posa il sole, mentre grandi e piccole fiere giuocano nella sua luce, sicure e placide come questa luce e quell'occhio stesso. Una tale gioia l'ha potuta inventare solo un uomo che ha perpetuamente sofferto, la gioia di un occhio davanti al quale il mare dell'esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, abbrividente velo di mare: non era mai esistita prima di allora una tale compostezza della voluttà.”

Sempre in La gaia scienza troviamo scritto: “L'epicureo si sceglie la situazione, le persone e perfino gli avvenimenti che si armonizzano con la sua costituzione intellettuale estremamente eccitabile, egli rinuncia al resto, vale a dire al più, perchè sarebbe per lui un cibo troppo forte e pesante.”

In Il viandante e la sua ombra (af. 8), poi, Nietzsche scrisse:

    Epicuro, l'acquietatore d'anime della tarda antichità, comprese meravigliosamente, come ancor oggi così raramente si comprende, che per tranquillizzare l'animo non é affatto necessario risolvere le ultime ed estreme questioni teoriche. Sicchè a coloro che erano tormentati dalla 'paura degli dèi', gli bastava dire: “se ci sono gli dèi, essi non si preoccupano di noi”,- invece di disputare sterilmente e da lontano sulla questione suprema, se ci siano in genere dèi. Questa posizione é molto più favorevole e forte: si danno all'altro alcuni passi di vantaggio, rendendolo così più pronto ad ascoltare e a ponderare. Ma non appena quegli si accinge a dimostrare il contrario,- che gli dèi si preoccupano di noi,- in quali errori e intrichi spinosi non dovrà cadere il misero, affatto da sè, senza astuzia da parte dell'interlocutore? Costui deve solo avere abbastanza umanità e finezza da nascondere la sua compassione per questo spettacolo. Da ultimo l'altro giunge alla nausea, l'argomento più forte contro quella proposizione, alla nausea per la sua stessa affermazione; si raffredda e va via con lo stesso stato d'animo che é anche dell'ateo puro: “cosa importa poi a me degli dèi? Che il diavolo se li porti!".- In altri casi, specie quando un'ipotesi a metà fisica e a metà morale aveva offuscato l'animo, egli non confutava questa ipotesi, bensì ammetteva che poteva essere così, ma che per spiegare lo stesso fenomeno c'era ancora una seconda ipotesi; e che forse la cosa poteva stare ancora diversamente. Anche nel nostro tempo la pluralità delle ipotesi, per esempio sull'origine dei rimorsi della coscienza, basta per togliere dall'anima quell'ombra che così facilmente nasce dal ruminare un'ipotesi unica, la sola visibile, e pertanto cento volte sopravvalutata. - Chi dunque desidera largire conforto, a infelici, malfattori, ipocondriaci, morenti, si ricordi delle due espressioni tranquillizanti di Epicuro, che si possono applicare a moltissime questioni. Nella forma più semplice esse suonerebbero all'incirca: primo: posto che la cosa stia così, non ce ne importa niente; secondo: può essere così, ma può anche essere diversamente.
Infine, in La volontà di potenza, af. 438, (opera postuma) il filosofo scrisse: “La lotta contro la 'fede antica' intrapresa da Epicuro fu, in senso stretto, una lotta contro il cristianesimo preesistente -- lotta contro il vecchio mondo intristito, moralizzato, inacidito da sentimenti di colpa, diventato decrepito e infermo.”


Epicurus

[si ringrazia storiafilosofia.it per alcuni brani di cui sopra]

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1 Commenti:

A 9/3/15 14:45, Blogger Fiori della Lessinia commenta così...

Una dissertazione fantastica, nel senso meravigliosa, su Nietzsche, particolarmente stuzzicante e ricca di spunti, collegamenti ed intelligenti intuizioni.
Grazie.

 

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