~ Alcune poesie di Giosuè Carducci
PIANTO ANTICO
L'albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da' bei vermigli fiori
Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora,
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.
NOSTALGIA
Tra le nubi ecco il turchino
Cupo ed umido prevale:
Sale verso l'Apennino
Brontolando il temporale.
Oh se il turbine cortese
Sovra l'ala aquilonar
Mi volesse al bel paese
Di Toscana trasportar!
Non d'amici o di parenti
Là m'invita il cuore e il volto:
Chi m'arrise a i dí ridenti
Ora è savio od è sepolto.
Né di viti né d'ulivi
Bel desio mi chiama là:
Fuggirei da' lieti clivi
Benedetti d'ubertà.
De le mie cittadi i vanti
E le solite canzoni
Fuggirei: vecchie ciancianti
A marmorei balconi!
Dove raro ombreggia il bosco
Le maligne crete, e al pian
Di rei sugheri irto e fosco
I cavalli errando van.
Là in maremma ove fiorío
La mia triste primavera,
Là rivola il pensier mio
Con i tuoni e la bufera:
Là nel ciel nero librarmi
La mia patria a riguardar,
Poi co 'l tuon vo' sprofondarmi
Tra quei colli ed in quel mar.
SUL MONTE MARIO
Solenni in vetta a Monte Mario stanno
nel luminoso cheto aere i cipressi,
e scorrer muto per i grigi campi
mirano il Tebro,
mirano al basso nel silenzio Roma
stendersi, e, in atto di pastor gigante
su grande armento vigile, davanti
sorger San Pietro.
Mescete in vetta al luminoso colle,
mescete, amici, il biondo vino, e il sole
vi si rifranga: sorridete, o belle:
diman morremo.
Lalage, intatto a l'odorato bosco
lascia l'alloro che si gloria eterno,
0 a te passando per la bruna chioma
splenda minore.
A me tra 'l verso che pensoso vola
venga l'allegra coppa ed il soave
fior de la rosa che fugace il verno
consola e muore.
Diman morremo, come ier moriro
quelli che amammo: via da le memorie,
via da gli affetti, tenui ombre lievi
dilegueremo.
Morremo; e sempre faticosa intorno
de l'almo sole volgerà la terra,
mille sprizzando ad ogni istante vite
come scintille;
vite in cui nuovi fremeranno amori,
vite che a pugne nuove fremeranno,
e a nuovi numi canteranno gl'inni
de l'avvenire.
E voi non nati, a le cui man' la face
verrà che scorse da le nostre, e voi
disparirete, radiose schiere,
ne l'infinito.
Addio, tu madre del pensier mio breve,
terra, e de l'alma fuggitiva! quanta
d'intorno al sole aggirerai perenne
gloria e dolore!
fin che ristretta sotto l'equatore
dietro i richiami del calor fuggente
l'estenuata prole abbia una sola
femina, un uomo,
che ritti in mezzo a' ruderi de' monti,
tra i morti boschi, lividi, con gli occhi
vitrei te veggan su l'immane ghiaccia,
sole, calare.
A SATANA
A te, de l'essere
Principio immenso,
Materia e spirito,
Ragione e senso;
Mentre ne' calici
Il vin scintilla
Sì come l'anima
Ne la pupilla;
Mentre sorridono
La terra e il sole
E si ricambiano
D'amor parole,
E corre un fremito
D'imene arcano
Da' monti e palpita
Fecondo il piano;
A te disfrenasi
Il verso ardito,
Te invoco, o Satana,
Re del convito.
Via l'aspersorio,
Prete, e il tuo metro!
No, prete! Satana
Non torna indietro!
Vedi: la ruggine
Rode a Michele
Il brando mistico,
Ed il fedele
Spennato arcangelo
Cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
A Geova in mano.
Meteore pallide,
Pianeti spenti,
Piovono gli angeli
Da i firmamenti.
Ne la materia
Che mai non dorme,
Re de i fenomeni,
Re de le forme,
Sol vive Satana.
Ei tien l'impero
Nel lampo tremulo
D'un occhio nero,
O ver che languido
Sfugga e resista,
Od acre ed umido
Pròvochi, insista.
Brilla de' grappoli
Nel lieto sangue,
Per cui la rapida
Gioia non langue,
Che la fuggevole
Vita ristora,
Che il dolor proroga,
Che amor ne incora.
Tu spiri, o Satana,
Nel verso mio,
Se dal sen rompemi
Sfidando il dio
De' rei pontefici,
De' re cruenti;
E come fulmine
Scuoti le menti.
A te, Agramainio,
Adone, Astarte,
E marmi vissero
E tele e carte,
Quando le ioniche
Aure serene
Beò la Venere
Anadiomene.
A te del Libano
Fremean le piante!
De l'alma Cipride
Risorto amante
A te ferveano
Le danze e i cori,
A te i virginei
Candidi amori,
Tra le odorifere
Palme d'Idume,
Dove biancheggiano
Le ciprie spume.
Che val se barbaro
Il nazareno
Furor de l'agapi
Dal rito osceno
Con sacra fiaccola
I templi t'arse
E i segni argolici
A terra sparse?
Te accolse profugo
Tra gli dèi lari
La plebe memore
Ne i casolari.
Quindi un femineo
Sen palpitante
Empiendo, fervido
Nurne ed amante,
La strega pallida
D'eterna cura
Volgi a soccorrere
L'egra natura.
Tu a l'occhio immobile
De l'alchimista,
Tu de l'indocile
Mago a la vista,
Del chiostro torpido
Oltre i cancelli,
Riveli i fulgidi
Cieli novelli.
A la Tebaide
Te ne le cose
Fuggendo, il monaco
Triste s'ascose.
dal tuo tramite
Alma divisa,
Benigno è Satana;
Ecco Eloisa.
In van ti maceri
Ne l'aspro sacco:
Il verso ei mormora
Di Maro e Flacco
Tra la davidica
Nenia ed il pianto;
E, forme delfiche,
A te da canto,
Rosee ne l'orrida
Compagnia nera
Mena Licoride,
Mena Glicera.
Ma d'altre imagini
D'età più bella
Talor si popola
L'insonne cella.
Ei, da le pagine
Di Livio, ardenti
Tribuni, consoli,
Turbe frementi
Sveglia; e fantastico
D'italo orgoglio
Te spinge, o monaco,
Su 'l Campidoglio.
E voi, che il rabido
Rogo non strusse,
Voci fatidiche,
Wicleff ed Husse,
A l'aura il vigile
Grido mandate:
S'innova il secolo,
Piena è l'etate.
E già già tremano
Mitre e corone:
Dal chiostro brontola
La ribellione,
E pugna e prèdica
Sotto la stola
Di fra' Girolamo
Savonarola.
Gittò la tonaca
Martin Lutero;
Gitta i tuoi vincoli,
Uman pensiero,
E splendi e folgora
Di fiamme cinto;
Materia, inalzati;
Satana ha vinto.
Un bello e orribile
Mostro si sferra,
Corre gli oceani,
Corre la terra:
Corusco e fumido
Come i vulcani,
I monti supera,
Divora i piani;
Sorvola i baratri;
Poi si nasconde
Per antri incogniti,
Per vie profonde;
Ed esce; e indomito
Di lido in lido
Come di turbine
Manda il suo grido,
Come di turbine
L'alito spande:
Ei passa, o popoli,
Satana il grande.
Passa benefico
Di loco in loco
Su l'infrenabile
Carro del foco.
Salute, o Satana
O ribellione
O forza vindice
De la ragione!
Sacri a te salgano
Gl'incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
De i sacerdoti.
ALLE FONTI DEL CLITUMNO
Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l'aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l'umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l'onda
immerge, mentre
vèr' lui dal seno de la madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:
pensoso il padre, di caprine pelli
l'anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de' bei giovenchi,
de' bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su 'l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi
su l'Apennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
l'Umbria guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l'antica
patria e aleggiarmi su l'accesa fronte
gl'itali iddii.
Chi l'ombre indusse del piangente salcio
su' rivi sacri ? ti rapisca il vento
de l'Apennino, o molle pianta, amore
d'umili tempi!
Qui pugni a' verni e arcane istorie frema
co 'l palpitante maggio ilice nera,
a cui d'allegra giovinezza il tronco
l'edera veste:
qui folti a torno l'emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l'ombre, tu fatali canta
carmi, o Clitumno.
0 testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne' duelli atroce
cesse a l'astato velite e la forte
Etruria crebbe:
di' come sovra le congiunte ville
dal superato Cimino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,
per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
— O tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,
e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l'inclinata quercia il cuneo, lascia
la sposa a l'ara;
e corri, corri, corri! con la scure
corri e co' dardi, con la clava e l'asta!
corri! minaccia gl'itali penati
Annibal diro. —
Deh come rise d'alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l'alta Spoleto
i Mauri immani e i numídi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d'olio ardente, e i canti
de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro saliente vena:
trema, e d'un lieve pullular lo specchio
segna de l'acque.
Ride sepolta a l'imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l'ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
de l'adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.
A piè de i monti e de le querce a l'ombra
co' fiumi, o Italia, è de' tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.
Emergean lunghe ne' fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,
e danze sotto l'imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quanto amor lo vinse
di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l'Apennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l'itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitumno,
tutto: de' vaghi tuoi delúbri un solo
t'avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori, vittime orgogliose,
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
— Portala, e servi. —
Fuggir le ninfe a piangere ne' fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a i monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procedé lenta, in neri sacchi avvolta,
litaniando,
e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d'impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.
Strappar le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.
Maledicenti a l'opre de la vita
e de l'amore, ei deliraro atroci
congiugnimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;
discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d'essere abietti.
Salve, o serena de l'Ilisso in riva,
o intera e dritta a i lidi almi del Tebro
anima umana! i foschi dí passaro,
risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d'annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! a te i canti de l'antica lode
io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l'acque
de l'Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.
DAVANTI A SAN GUIDO
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardar.
Mi riconobbero, e— Ben torni omai —
Bisbigliaron vèr' me co 'l capo chino —
Perché non scendi ? Perché non ristai ?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.
Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh non facean già male!
Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí ?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! —
— Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei—
Guardando lor rispondeva — oh di che cuore !
Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è piú quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.
E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.
E massime a le piante. — Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.
Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
— Ben lo sappiamo: un pover uom tu se'.
Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.
A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!
E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;
I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.
Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,
Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;
E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. —
Ed io—Lontano, oltre Apennin, m'aspetta
La Tittí — rispondea; — lasciatem'ire.
È la Tittí come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.
E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano! —
— Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? —
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.
Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:
La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,
Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.
O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!
— Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:
Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.
— Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,
Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.
Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.
Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.
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