Mi cito addosso
La citazione:
Poiesis tra imitazione e ironia
Il gesto della citazione non rappresenta soltanto una pratica scritturale; l’atto di citare circoscrive anzi un atteggiamento molto più vasto e profondo, il cui arco espressivo si tende dalla semplice ecolalia all’argomentazione di una tesi, alla testimonianza a favore di una esperienza, alla consolazione, per altro illusoria, di fronte allo horror vacui e alla produzione di senso (che include, naturalmente, anche quella inversa del non senso). In quest’ultima accezione, la citazione ha una funzione poietica; non è soltanto imitazione riproduttiva o ricostruttiva, bensì creazione costruttiva. Le costellazioni di senso che contribuisce a formare costituiscono strutture di rinvio e stratificazioni di senso molteplici. La citazione rinvia sempre verticalmente e orizzontalmente a punti spaziali e temporali distanti sia tra loro sia dal luogo e dal momento in cui essa stessa si trova, ma pur sempre presenti perché attualizzati. In quest’ultimo aspetto consiste la forza poietica della citazione; per tentare di cogliere meglio tale forza, anche in relazione al suo aspetto mimetico, prendiamo le mosse dal concetto goetheano di stile:
Quando, attraverso l’imitazione della natura, lo sforzo di crearsi un linguaggio universale e lo studio preciso e approfondito degli oggetti stessi, l’arte impara infine a conoscere esattamente, e con sempre maggiore esattezza, le proprietà delle cose e i loro modi d’essere, e ad abbracciare con lo sguardo la serie delle loro configurazioni, riuscendo a tenere insieme e a imitare le diverse forme caratteristiche, allora lo stile sarà il livello più alto a cui essa può giungere.
Sorge immediatamente la questione se anche all’interno di una costellazione di concetti la citazione possa essere poietica; se possa contribuire cioè a creare uno stile anche in filosofia, uno stile non solo artistico, musicale o letterario, bensì teoretico. Se così fosse, bisognerebbe trovare allora una risposta alla domanda: “Di che cosa la citazione è imitazione?”. Se invece la citazione è soltanto parvenza, se la sua funzione si riduce a mero involucro dietro il quale non vi è nulla da scoprire, allora essa si riduce a ciò che Oscar Wilde ha definito come una sfinge senza enigma, e qui, riguardo alla citazione, il problema del suo carattere poietico nemmeno si pone, perché si tratta di semplice ecolalia.
Ogni lettura – sostiene Althusser – è colpevole e, ancor più, ogni scrittura. Tale colpevolezza circoscrive in una sola parola l’intera problematica della citazione, la sua funzione e il suo senso. Colpevole è già l’atto di parola in sé, perché si cita sempre, anche quando non lo si sa, e ciò che si cita è presente nel proprio discorso in quanto mancanza, oblio e deformazione. La violenza è implicita nell’operazione del citare e occorre, come suggerisce il Reb Alcé, segnare la prima pagina del libro con un segnalibro rosso, perché all’inizio la ferita è invisibile. Invisibile, o almeno celata, è spesso anche la pratica stessa del citare. Quando, un giorno, qualcuno chiese a Luciano Berio di improvvisare qualcosa al pianoforte, l’ascoltatore si rese presto conto che ciò che sentiva era molto simile ad alcune parti di Tristan und Isolde di Wagner; dopo averglielo fatto notare, anche Berio se ne dovette rendere conto e spiegò la circostanza con il fatto che da parecchio tempo stava studiando proprio il Tristano. Negli scritti di Nietzsche si possono trovare infinite citazioni senza virgolette; Marx disse di se stesso e del suo lavoro di essere condannato a leggere libri e a gettarli in forma diversa sul letamaio della storia; Hegel, per finire, aveva la lucida consapevolezza di non aver nulla di originale da dire e di dover semplicemente mettere un punto fermo a ciò che fino alla sua epoca lo spirito umano aveva prodotto. Si potrebbe continuare questa casistica e, magari, tornare indietro a epoche più lontane, sostenendo che Platone abbia già scritto tutto e che, nella sua barba, si sono già rotti molti rasoi, non ultimo quello di Guglielmo da Ockham, senza dimenticare tuttavia il fatto che anche Platone citava Socrate; in questo modo si arriverebbe presto alla nota teoria ermeneutica dell’intertestualità, secondo la quale siamo tutti interpretazioni di e da parte di altri, e con ciò, eo ipso, citazioni citate e citanti. Tuttavia, pur senza voler mettere in dubbio tale teoria, occorre dire che essa non spiega fino in fondo l’intima struttura della citazione in quanto tale, cioè la sua forma e le sue potenzialità poietiche, ma soltanto la sua presenza di fatto in ogni atto di pensiero.
Per quanto riguarda la forma, la struttura della citazione e la sua importanza per la filosofia, è possibile porre il problema, in riferimento al passo di Goethe, nella maniera seguente. La citazione come imitazione crea uno stile teoretico e filosofico costituito da concetti che si trovano in determinate costellazioni; costellazioni che, a loro volta, mettono in movimento i concetti e, di conseguenza, li modificano in quanto ne mutano le relazioni. All’interno della costellazione la citazione è rovina, frammento di un intero assente, e quindi ciò che Benjamin definisce come allegoria: una struttura di senso che rinvia continuamente ad altro e che quindi non si esaurisce mai, per la sua intima costituzione, in se stessa. All’interno di questa struttura tuttavia la citazione costituisce un tratto saliente che possiede una sua propria aura; tale aura avvicina la citazione alla sfera cultuale, con la quale del resto ha molti tratti in comune, e ciò crea una costellazione contraddittoria che sfocia nell’ironia e nella parodia. La citazione può tanto rappresentare l’impossibilità di stile, e di conseguenza la necessità di ricorrere all’auctoritas altrui, quanto costituire la possibilità stessa di uno stile, anche in forma di parodia ovvero in quella forma di consapevolezza che sa di non avere, in realtà, nulla da dire. La citazione può essere espressione di onestà intellettuale, celare l’assenza di sostanza o costituire la ricerca di uno stile appropriato al problema che si sta trattando. Ci si può nascondere dietro una citazione quale forma di scientificità, ma si può anche, per mezzo della citazione, rivelare una costellazione diversa di elementi con cettuali che riguardano uno stesso problema. La questione è, appunto, una questione di forma, cioè del modo in cui vengono disposti i concetti, ossia le citazioni; tale modo – in ultima analisi lo stile – deciderà poi il contenuto.
Prima, tuttavia, di approfondire la struttura stilistica della citazione, le sue possibilità poietiche, occorre dare una risposta al problema sollevato dalla prima parte del passo goetheano. Se la citazione è una forma di imitazione, che cosa imita? Attraverso la citazione, in filosofia si assimilano riflessioni, concetti, teoremi e pensieri. Tuttavia, non si cita la riflessione, il concetto, il pensiero o il teorema; si cita anzi la forma in cui sono stati esposti, la loro Darstellungsform, direbbe Benjamin. Con la citazione ci si appropria di forme di esposizione altrui attraverso le quali formare il proprio stile; in ciò consiste il suo valore poietico. Il vero contenuto di una filosofia, sostiene Nietzsche, è il suo stile; il filosofo è l’eterno Edipo di fronte alla Sfinge e deve sempre di nuovo trovare risposte alla stessa antica domanda. Il suo stile deciderà delle sue risposte; tali risposte, però, le trova soltanto con elementi concettuali già esistenti e da qui risulta l’importanza della citazione. In filosofia, sostiene Benjamin, “il metodo è una via traversa” [Methode ist Umweg]. Citare, in questo senso, significa percorrere vie traverse, perché la via diretta, la risposta immediata, l’intenzionalitàsoggettiva falsificano sia il processo sia il risultato della ricerca. La via diretta e intenzionale non coglie mai l’oggetto, bensì sempre e soltanto se stessa, la propria prigione soggettiva. Tuttavia, la citazione può imitare sempre e soltanto ciò che è già stato scritto e rischia di rimanere prigioniera del proprio circolo ermeneutico che è quello della mera ecolalia che, a volte, assume la forma di “glossolalia irriflessa”. Il patrimonio culturale della tradizione, sostiene Benjamin, non può però essere considerato senza orrore. “Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie” e occorre, nella misura del possibile, prenderne le distanze. L’imperativo storico filosofico di “spazzolare la storia contropelo” costituisce una via traversa per trovare una via d’uscita [Auswege sind Umwege]. Il metodo della citazione, in quanto stile teoretico e non soltanto come mera imitazione, può forse costituire una tale via di scampo e probabilmente persino una via d’uscita dalle stesse connessioni culturali e tradizionali, nelle quali siamo stati gettati.
Citiamo per analogiam un passo dalla Relazione per un’accademia di Franz Kafka, dove una scimmia tiene un discorso su come è divenuta uomo:
Questo risultato [l’esser divenuto uomo] sarebbe stato impossibile se mi fossi ostinato a restar fedele alle mie origini, ai ricordi di gioventù. Proprio la rinuncia a ogni ostinazione è stata il comandamento supremo che mi ero imposto di osservare; io, una scimmia libera, mi piegai a quel giogo. La conseguenza fu però che i ricordi, da parte loro, mi si chiusero sempre più. […] Nel mondo degli uomini mi sentivo sempre meglio e via via più incluso; si placò la tempesta che mi soffiava dietro dalle profondità del mio passato […]. Per esser franco: la vostra esistenza scimmiesca, signori, ammesso che abbiate qualcosa del genere alle spalle, non può essere più lontana da voi di quanto non sia la mia da me. Ma il tallone pizzica a chiunque cammini su questa terra: al piccolo scimpanzé come al grande Achille. […] Per la prima volta nella mia vita mi trovavo senza via di scampo; quanto meno, non la vedevo diritta davanti a me […]. Uso la parola [via di scampo] nel suo significato più comune e pieno. Di proposito non dico libertà. […] Nei teatri di varietà, prima della mia esibizione, ho visto spesso una qualche coppia di artisti trafficare ai trapezi in alto sul soffitto. Si slanciavano, dondolavano, saltavano, volavano l’uno nelle braccia dell’altro, l’uno reggeva l’altro con i denti per i capelli. “Anche questa è libertà umana,” pensavo, “movimento sovrano.” Oh scherno della sacra natura! Nessun edificio resisterebbe alla risata del mondo delle scimmie dinanzi a quella scena. […] Ripeto, non mi attirava l’idea di imitare gli uomini; imitavo perché cercavo una via di scampo, per nessun altro motivo. […] La natura di scimmia usciva da me a folle velocità, travolgendosi nella corsa, tanto che il mio primo maestro divenne quasi una scimmia.
Si imita perché si cerca una via d’uscita, e non per una presunta libertà soggettiva o perché si sia attratti da ciò che si imita. Attraverso la pratica della citazione si percorrono vie traverse, che cercano di eludere l’intenzionalità soggettiva e la brama d’indipendenza che soltanto allude alla libertà dal passato ma non riesce nemmeno a intravedere la libertà per uno stato di cose davvero altro. La verità non è parola espressa dal soggetto ma nome non pronunciato che traluce dalla costellazione di citazioni (esplicite e non). Uno stato di cose davvero altro, la verità in quanto tale, oppure, in senso storico e teologico, il mondo nella luce della redenzione sarebbe, secondo un’antica dottrina teologale, lo stesso mondo attuale, soltanto spostato per un poco. In questo senso si può paragonare per analogiam la disposizione delle cose all’interno del mondo reale alla disposizione delle citazioni in una textura. Così come ciò che rende redento il mondo sono i rapporti tra le cose che ne trasformano l’essenza, ciò che traluce come verità da una textura è determinato, al suo interno, dalla disposizione delle citazioni. Le citazioni creano costellazioni storicamente determinate e queste costellazioni sono il volto della verità che si dispiega nel corso della storia.
Se dunque la citazione è imitazione di prece denti forme d’esposizione [Darstellungsformen] teoretiche le quali, messe in costellazioni diverse, creano nuove forme espressive della verità, nuovi stili, e quindi nuovi contenuti, allora si può forse avanzare una prima e provvisoria definizione della citazione poietica: la citazione è forma formante uno stile che crea nuovi contenuti attraverso la variazione di temi e lo sviluppo di motivi altrui. Qui la vicinanza tra il metodo teoretico e la tecnica compositiva musicale è evidente: per ambedue le pratiche l’importante non è il tema, bensì le sue variazioni, i suoi sviluppi. Tuttavia, tale vicinanza è stata raramente avvertita, e lo stesso Hegel non se ne accorgeva, soprattutto per quanto riguarda la stretta parentela tra la sua filosofia e la musica di Beethoven. Si può infatti definire anche la pratica della citazione con il termine musicale entwickelnde Variation, coniato da Schönberg; una variazione appunto che sviluppa un motivo in tutte le sue potenzialità in modo tale da raccontare la particolare storia di questo motivo, storia che è appunto il suo sviluppo [Durchführung]. Tratto, tuttavia, essenziale e decisivo di questa storia è che il tema, il motivo, ovvero la serie di cui narra, rimane assente, benché ne ispiri l’intero percorso quale centro assente.
L’analogia tra il procedimento compositivo in musica e quello della citazione di testi fa immediatamente sorgere innumerevoli altri quesiti che qui purtroppo non possono essere approfonditi: la linea melodica ripetuta, ma non variata, dallo stesso o da un altro strumento, per esempio, può essere considerata una citazione? La ripetizione in musica in genere è una citazione di se stessa, e che cosa cambia se la ripetizione avviene in un’altra tonalità? Che cosa in musica si può citare? Solo il tema, il motivo? O intere pagine dello sviluppo? Quale ruolo svolge la felicità che si prova nei confronti di una ripetizione, anche quando è variata? La citazione, sia quella musicale sia quella testuale, è basata sul riconoscimento? Il ritornello nella poesia è citazione, ripetizione, variazione? Perché la musicazione delle poesie può, a volte, non rispettare la legge della ripetizione e dare allo stesso ritornello di volta in volta una veste musicale diversa? E infine, ma non in ultimo: qual è l’influenza di queste pratiche sul carattere poietico della citazione? La musica insegna che la ripetizione di un motivo, in quanto imitazione variata, è in realtà già poietica; essa crea un rapporto tra la citazione e il citato e ciò, in musica, significa creare un senso ed è in fondo una delle sue leggi fondamentali. Ogni atto di citazione può dunque possedere un suo carattere poietico, proprio perché la citazione è già la metamorfosi di ciò che cita e, in questo senso, la teoria dei passi paralleli, così come la formula Peter Szondi, acquista nuovi significati. Una stessa frase, o anche soltanto lo stesso concetto in due luoghi testuali diversi – anche all’interno dello stesso testo – non può mai avere lo stesso significato. Ne consegue che la citazione non può mai essere interamente letterale; il luogo in cui essa si trova nel nuovo testo, e anche all’interno dello stesso testo, è infatti determinante per il suo senso hic et nunc che è sempre leggermente spostato rispetto al senso che aveva nella pagina dalla quale è tratta.
Se si considera da questo punto di vista la Fenomenologia dello spirito di Hegel, si scopre che de facto i concetti che utilizza – che in realtà sono assai pochi – hanno sensi sempre leggermente spostati in relazione al luogo in cui si trovano; e il suo modus procedendi teoretico de jure stabilisce: la verità non è il risultato, ma il processo assieme al suo risultato, e durante tale processo i concetti mutano il loro senso acquisendo esperienza e autocoscienza. Nella Fenomenologia si possono inoltre trovare numerosi passi presi da altri autori senza che vengano messe le virgolette e, in genere, tali citazioni non sono mai letterali o esatte. Ma persino là dove Hegel cita apponendo le virgolette e quindi evidenziando ciò che sta facendo, varia e sviluppa il passo citato e gli conferisce un nuovo senso conseguente al ductus della Fenomenologia stessa. Nelle battute di chiusura dell’opera infatti cita gli ultimi due versi della poesia Die Freundschaft di Schiller. Riportiamo prima la versione originale e poi quella di Hegel:
“Aus dem Kelch des ganzen Seelenreiches / Schäumt ihm – die Unendlichkeit”
“aus dem Kelche dieses Geisterreiches / schäumt ihm seine Unendlichkeit”.
Tra le molte variazioni di questo tema rileviamo soltanto quella più in vista: Hegel, da un lato, omette l’individualizzazione sottolineata da Schiller [ihm], ma, dall’altro, soggettivizza l’infinito [dieses, seine]. Egli, infatti, sosteneva di non avere nulla di nuovo da dire, semplicemente citava e modificava le costellazioni tra le citazioni prese da precedenti autori creando così una delle infinite riprese nelle quali l’umanità deve, secondo Benjamin, riscrivere il proprio testo. La singola citazione è un elemento all’interno di una determinata costellazione di citazioni, la quale decide il suo significato, peso e senso; è frammento, allegoria, rovina che attraverso il gesto della citazione viene salvato.
Non esiste quindi una scrittura originaria – e tantomeno una scrittura automatica che de facto ripete il già scritto in modo irriflesso –, ma nemmeno esiste una scrittura definitiva e ultima; ogni vero inizio – sostiene infatti Novalis – è un secondo momento.
Con la citazione, tuttavia, ci si iscrive anche sempre in un corpus di citazioni, cioè nella tradizione. Si tratta di un “richiamare” l’autore a testimoniare di nuovo in un contesto storico e teoretico diverso; si tratta di un ad plures ire che, anche nel caso della citazione, conserva la sua intima struttura di senso.
Da un lato con il gesto della citazione si va verso i morti, come i romani interpretavano l’ad plures ire, e ciò vale anche quando si cita un vivente, oppure se stessi, perché è insito nella forma della citazione in quanto tale il rinvio al regno dei morti. Ciò che viene citato è sempre già passato, trapassato; il futuro non è mai citabile. Dall’altro lato, tuttavia, si possono citare soltanto testi viventi, e viventi sono soltanto i testi stratificati che, nel corso della loro vita, scoprono strato per strato il loro senso, e ciò li avvicina all’antica idea di eros e del suo oggetto precipuo: la bellezza. Seguendo la sua legge essenziale, la bellezza è infatti ciò che è necessariamente più velato e che rivela soltanto a più riprese – si potrebbe anche dire: a più citazioni, cioè strato per strato – la propria verità. In questo senso, due dei lati essenziali della citazione sono eros e thanatos, i quali implicano il continuo ritorno sul simile. Il gesto della citazione designa, si potrebbe dire, una coazione a ripetere la stessa riflessione per una esperienza sempre diversa. In certo qual modo tale pratica si contrappone anche all’attuale mondo di esperienza, dove l’industria culturale induce una coazione a ripetere sempre la stessa esperienza con riflessioni diverse. Inoltre, il gesto della citazione conferisce, come si è visto, un’aura a ciò che cita, perché ogni citazione cita sempre più di quello che dice, più di ciò che letteralmente riporta. In questo senso, la citazione è virtualmente inconcludibile. Si tratta di un minus dicere che presuppone un sapere più vasto per essere compreso. Questo lato partecipa anche del suo carattere cultuale; la citazione è frammento di un intero che non si dà, è allusione ed enigma, o mistero.
La citazione, più di altre pratiche scritturali, crea dunque stratificazioni di senso che esigono di essere scoperte poche alla volta per rispettare la loro intima struttura. Si tratta, in breve, di un “ipse dixit” secolarizzato. Le citazioni non sono, dunque, esempi; quando si cita, come sostiene infatti Hegel, non si riportano, per comprovare le proprie asserzioni, semplici esempi, Beispiele (giochi accanto allo svolgimento serio dei problemi). La citazione, anzi, interrompe il tranquillo fluire del testo e della conduzione teoretica per porre il lettore di fronte alla serietà della scrittura, cui egli deve rispondere con la più vigile e attenta consapevolezza e con la più alta autocoscienza. Questa caratteristica designa anche il momento anticultuale, illuminista, della citazione e anticipa il suo lato ironico. Tra il momento che secolarizza l’esperienza cultuale e quello che aumenta la consapevolezza del lettore e dell’autore, si dispiega, ora, un’essenziale contraddizione della citazione: la forma secolarizzata della citazione cultuale è quella scientifica che esige la citazione per la reiterabilità di ciò che si vuole dimostrare; un frammento di culto e di mito si trovano dunque anche nella razionalità scientifica dispiegata. Più in dettaglio, tale contraddizione si dispiega, sia per la citazione scientifica sia per quella cultuale, anche a un altro livello, quello della contraddizione tra l’intero e il particolare.
Un analogon a questa dialettica è costituito dalla pratica della traduzione la quale però, normalmente, occulta se stessa di fronte al lettore che viene così indotto a credere di leggere le parole stesse dell’autore – in certo qual modo un “ipse dixit” –, laddove invece chi parla è il traduttore che interpreta l’autore.
Anche la traduzione – proprio perché cita un testo intero, ma in un’altra lingua – dovrebbe accentuare il suo proprio momento anticultuale e introdurre un effetto di straniamento per far capire al lettore che non sta leggendo direttamente il testo ma, appunto, una sua interpretazione. In questo senso la traduzione non può mai esporre l’intera stratificazione di senso del testo originale, ma sempre soltanto quel particolare strato che è storicamente quello più rilevante. In questo senso gli sfaccettati rapporti di Goethe con la traduzione possono rappresentare bene la problematica. Da un lato, nel 1826, egli legge la Divina Commedia nella traduzione di Karl Streckfuß fidandosi quasi alla cieca – almeno questa è l’impressione – della versione tedesca, tanto da fraintendere in senso realistico l’uso allegorico che Dante fa del terremoto della valle dell’Adige per esprimere la paura che prova nel seguire Virgilio, paragonandolo ai dipinti di Giotto. Dall’altro egli stesso traduce il Saggio sulla pittura di Diderot interrompendo continuamente il flusso della traduzione con commenti su ciò che Diderot scrive. L’effetto che un tale modus procedendi esercita sul lettore è molto simile a ciò che Brecht definisce come effetto di straniamento. In ultimo, le tesi contenute nelle note al Divan sono state elogiate da Benjamin, che del compito del traduttore aveva compreso molte cose: “Sono probabilmente […] quanto di meglio si sia pubblicato in Germania sulla teoria della traduzione”.
Il terminus ad quem della dialettica tra particolare e intero che caratterizza la pratica della citazione potrebbe essere indicato con la nota affermazione di Hofmannsthal “Leggere ciò che non è mai stato scritto”, ovvero avvicinare il più possibile ciò che non è mai stato scritto alla sua leggibilità. L’unico modo per scriverlo è riscrivere continuamente ciò che è già stato scritto per poter significare, in modo ogni volta diverso, ciò che non è mai stato scritto. La totalità del dicibile infatti è già a disposizione del lettore, ma perché tale quantità si rovesci davvero in qualità, occorre il salto che Benjamin definisce come rivoluzione o redenzione; bisogna cioè che, usque ad finem, l’umanità riscriva continuamente il proprio testo. La citazione stessa, in quanto forma di scrittura (ma anche come forma di comunicazione orale), non è concepibile senza la categoria della totalità perché tale pratica condensa in una singola citazione significati e rinvii che la trascendono. La piena consapevolezza di questa struttura della citazione fa sì che l’intero si possa dare unicamente in modo ironico e come parodia, e la parodia come forma implica che il materiale testuale non venga ricostruito (in questo senso la citazione è la più lontana possibile dalla filologia che la utilizza nel modo opposto), bensì costruito per mostrare un altro ordine simbolico e non per dimostrare un ordine già esistente. Nel suo intimo, l’atto della citazione rispetta ciò che cita proprio non rispettandolo. Meglio di chiunque altro Stravinskij ha colto questa caratteristica: “Dove voi rispettate”, rispondeva a chi gli rimproverava il suo modo di trattare la tradizione, “io amo”. “Il passato si sottrae ai nostri tentativi di afferrarlo. Ci lascia solo delle cose sparse e il legame che le unisce ci sfugge”. E, in riferimento a Shakespeare, Victor Hugo diceva che assomigliamo ai grandi maestri soltanto in quanto non cerchiamo di assomigliarvi. Per quanto riguarda il lato più tecnico della pratica della citazione, la sua meta potrebbe essere individuata nell’idea benjaminiana di un’opera costruita interamente da citazioni, il Passagenwerk appunto, un’opera che, per quanto diversa nella forma, si avvicina molta all’idea guida della fenomenologia hegeliana, cioè il “puro stare a vedere”.
L’intero, dunque, cui ogni particolare citazione in un modo o nell’altro allude, sia in modo cultuale sia in modo scientifico, non si dà; la stessa logica discorsiva lo impedisce, perché ostacola la contemporaneità degli elementi, la quale soltanto potrebbe essere immediata e interamente presente. Nemmeno a me stesso posso essere contemporaneo; persino l’autocitazione comporta in una certa misura una dis-identità, luogotenente del non-identico all’interno della procedura logica di identificazione e correttivo del principio dell’identità, fondamentale per il pensiero occidentale. L’autocitazione è autoriflessione perché estrae un frammento del proprio sé da costellazioni di senso pluristratificate e appartenenti al passato, per inserirlo in universi simbolici attuali. Tali universi sono a loro volta pluristratificati in senso temporale e spaziale. Analogamente alla struttura della relazione tra gli uomini, anche la comunicazione non avviene mai soltanto all’interno di una struttura strettamente bipolare ma coinvolge sempre anche altri elementi, sebbene a un livello di importanza inferiore. La parola proferita è strutturata da universi simbolici differiti nello spazio e nel tempo. Il gesto della citazione ha il pregio di illuminare questa struttura sommersa e silenziosamente nascosta da ogni atto di parola e di attualizzarla sempre di nuovo, per scoprirne stratificazioni diverse e implicazioni non dichiarate. Infatti, l’umanità deve continuamente riscrivere il proprio testo perché soltanto l’umanità redenta potrebbe citare in modo indiscriminato tutto il proprio passato e quindi essere in senso forte contemporanea a se stessa. Una tale mémoire involontaire dell’umanità redenta si configurerebbe come immagine intuitiva della storia satura di passato; essa sarebbe esperienza immediata e momentanea, e per questo motivo non intenzionale, di ciò che sarebbe diverso dal continuo precipitare in avanti, lo si chiami progresso, in senso storico o scientifico, oppure, in senso esistenziale, impossibilità faustiana di potersi fermare o trattenere. Durante la continuata riscrittura del proprio testo l’immagine dialettica che cita il passato costituisce, nella sua rapidità istantanea, l’anticipazione della redenzione la quale, come è noto, non conosce più il tempo. Se il testo potesse citare per intero il corpo esperiente, tale citazione sarebbe la vita, l’esperienza in quanto tale dove lo spazio metaforico tra segno e significato sarebbe ridotto a un minimo, l’eterno movimento assestato in un punto solo che però immediatamente svanisce. L’intero dunque non si dà, ma la citazione – e con essa la riflessione e, di più, l’autoriflessione – sarebbero nulle senza questa pretesa di completezza. Questa contraddizione crea l’ironia che solo per un istante fa trasparire l’intero che subito dopo svanisce.
La citazione tuttavia è soltanto il veicolo dell’esperienza, non già essa stessa; la citazione indica, mostra, palesa e illumina, ma non è mai fino in fondo ciò che dice. Il suo terminus ad quem sarebbe il nome proprio che, appunto, né cita né riflette ma che imita – come sostiene Aristotele – ciò che nomina. Colui che cita, però, rimane manchevole, anche nei confronti di se stesso; manchevolezza che proprio attraverso il gesto della citazione vuole colmare e che proprio la citazione mette a nudo. Questa dimensione della dialettica della citazione potrebbe anche essere letta nei termini di povertà d’esperienza e ricchezza di riferimenti differiti.
La citazione dice ironicamente qualcosa che, in modo immediato e completo, non è più possibile dire. È un dire “come se”; un focus imaginarius in ambito teoretico; crea inautenticità attraverso il mezzo stilistico dell’autenticità; effettua uno straniamento nei confronti di ciò che sembra essere massimamente immediato, e ciò sia in senso cultuale sia in senso scientifico. Nell’ambito dell’esperienza vissuta, la citazione però può, se impiegata con il massimo dell’autocoscienza, creare parimenti autenticità attraverso il mezzo dell’inautenticità, cioè un’immediatezza seconda, risultato di un processo di riuscita mediazione. La citazione occupa qui il posto del nome proprio, ne nasce una dialettica tra autenticità e inautenticità e ne risulta una parzialità consapevole di essere parziale, e quindi sa trascendersi. Come ogni buona citazione, sa ironicamente di non essere ciò che dice, di non rappresentare l’intero cui allude, di non proferire il nome proprio per intero e, di conseguenza, si trascende
per salvare ciò che non può dire: uno spazio non prefigurato dall’intenzionalità soggettiva e dalla falsificazione delle connessioni oggettive, uno spazio che, come è ovvio, può darsi soltanto in modo negativo, come u-topos.
No, no, non Topolino: u-topos!
Con il gesto della citazione ironica l’autore diminuisce la sua presenza, rinuncia sia alla propria identità sia a una identità negativa, in modo da mettere in moto ogni singolo elemento fino alla conseguenza estrema di uscire egli stesso dal testo. Con una estremizzazione della costruzione soggettiva, il soggetto desoggettivizza se stesso e il testo, lasciando il lettore da solo con l’opera – lo sgomento e lo spaesamento che ciò produce è index veri –. Nel testo in cui l’autore si è ironicamente cancellato parla soltanto il citato, in extremis la lingua stessa da sola come in alcuni degli ultimi versi di Hölderlin o in alcune delle ultime battute di Beethoven. Di fronte allo horror vacui del silenzio, il gesto della citazione cerca di salvare la parola che non può dire. Lo stile di Beckett in Finale di Partita recepisce fino in fondo questa struttura.
Il problema dell’impossibilità di un contenuto autentico, tuttavia, non nasce soltanto dopo Auschwitz, ma già con Kant e con la reazione romantica al suo criticismo a partire da Fichte. La citazione, infatti, può essere considerata come forma di riflessione che trasforma ogni forma precedente nel contenuto di una seconda riflessione. Infatti, la definizione che Fichte dà della riflessione è quella di una riflessione della riflessione, forma di una forma. In questo senso, e sullo sfondo più ampio della problematica della citazione che si è tentato di abbozzare, la definizione della riflessione completa la sua provvisoria definizione come forma formante forma e quindi stile che è poi contenuto. Tale forma di una forma è, paradossalmente e ironicamente, il contenuto della citazione. Così è da intendere anche la concezione che Novalis ha dell’Antichità: essa è quella che noi citiamo, non quella realmente esistita, il passato viene costruito dai presenti che lo citano per inserirlo nelle costellazioni di senso contemporanei. Ogni forma è risultato di un processo critico nei confronti di una forma precedente; la ricreazione di forme antiche non è possibile, ogni nuova forma nasce come parodia ironica di una forma precedente dalla cui rovina salva alcuni frammenti e certe caratteristiche per inserirli in un contesto formale nuovo dove fungono da citazioni poietiche nate da un complesso processo di imitazione e rielaborazione della forma precedente.
Dietro l’atto della citazione traspare dunque la vis allegorica con il suo furore distruttivo nei confronti di ogni ordine formale preesistente e con la sua forza poietica che innerva ogni nuovo stile della propria esperienza. Frammento allegorico, rovina di un intero assente, ironia e parodia sono dunque i tratti salienti che caratterizzano la citazione. E con ciò la citazione diviene parodia di ciò che cita, forma di una forma nel momento in cui quest’ultima è divenuta impossibile.
Sono stato chiaro?
Ho citato abbastanza in latino?
Requiescat.
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