~ Un giorno, di Carlo Vallini

Maggie Taylor: camera muta

Morire! Una camera muta

e un letto profondo: lontano

la fiamma d'un vespro sanguigno

che splenda tra i cento comignoli

d'una città sconosciuta:

giacere in quel letto profondo;

udir con un senso inumano

d'angoscia il confuso lontano

eterno fragore del mondo:

sentire che per riposare

un sonno profondo non basta,

ma occorre una pace piú vasta;

sentire che tutto scompare

per sempre, che il sogno dilegua

per sempre, che tutto è fuggito

per sempre, che tutto è finito;

sentire vicina la tregua;

compiere il gesto improvviso:

il sangue che sfugge dal viso,

il senso indicibile, ignoto,

di precipitare nel vuoto,

di precipitare per sempre,

di divenir preda del niente...

un senso di gelo, fugace,

poi nulla. La morte. La pace.


(1907)




L’ACCIDIOSO STUPORE DI CARLO VALLINI

Pubblicato su IL DENTE DEL GIUDIZIO
Dicembre 5, 2007 Letteratura

Il nome di Carlo Vallini (1885-1920) lo si trova relegato fra le note a margine di qualche sparuto almanacco sulla cultura torinese d’inizio secolo (quello passato, s’intende) o, al più, inserito con benevola furtività in scritti sul suo concittadino ed amico Gozzano. Anche il testo critico di maggiore ampiezza ed intelligenza a lui dedicato (“La poesia di Carlo Vallini”, E.Sanguineti, contenuto in “Carlo Vallini, Un giorno ed altre poesie”, Einaudi editore), pur fornendo al lettore una perlustrazione attenta dell’esiguo corpus poetico valliniano per ciò che concerne il piano stilistico e quello delle movenze affettivo-psicologiche, non fa che leggere l’opera di Vallini in controluce: la luce, ovviamente, è quella vivida della grande poesia gozzaniana.

Certo, la vicinanza tra le raccolte di Vallini La Rinunzia ed Un Giorno e la contemporanea La via del rifugio (tutte pubblicate nel 1907) è evidente ed i motivi culturali, stilistici e pienamente poetici che avvicinano i due scrittori sono di indubbio rilievo: l’infiltrazione prima ed il superamento poi della maniera dannunziana, lo scarto generazionale avvertito come spostamento di senso compiutamente esistenziale, l’emblema araldico dell’ironia che come un acido corrode irreparabilmente la percezione dell’umano e genera una struttura del reale pervicacemente bipolare (Tutto e Nulla). La fratellanza poetica tra Vallini e Gozzano è palese ma, almeno a parere di chi scrive, non esaurisce il valore del primo e, soprattutto, non ne discopre le caratteristiche più moderne dell’espressione.

Il centro nevralgico della poesia valliniana di maggiore maturità, quella di Un Giorno, non è da ricercarsi nel sentimento dell’ironia: si tratta di un fattore ostentatamente culturale che, certo, innerva un numero nutrito di versi del poemetto, ma che si pone accanto ad altri nuclei spirituali (tra i più vistosi e pervasivi, oltre alla reazione alla pienezza estetica dannunziana, merita menzione un rimando al buddismo d’ascendenza romantica). L’ironia, senza dubbio, fornisce un carico di robusta scioltezza a quei trapassi di tono che lardellano il poemetto, oltre a donare ad essi congruità poetica, ma i risultati più incisivi Vallini li ottiene quando scioglie il dato culturale, rassoda i versi portando a compiutezza il loro incedere afono e monocorde e quando, infine, parla con una voce sola. L’ironia in Vallini ha invece carattere polifonico: i versi sotto il regno di questa sono talune volte di franca ed indifesa bellezza (e per i motivi indicati con acume da Sanguineti), spesso approssimativi e scialbi.

È nel momento in cui prende il sopravvento il meccanismo di reificazione che i versi di Un Giorno si animano con piena vigorìa: un accidioso stupore allarga il canto, la monotonia d’impianto nei versi si fa fermamente salmodiante e pastosa, con gli scarti stilistici tutti riassorbiti in una compostezza d’eloquio, a volte, da grande poeta minore. Si tratta, in particolare, della sezione del poemetto chiamata La morte (forse quella, nel complesso, di più alto valore), di cui giova riportare qui qualche estratto:

Morire! Una camera muta
e un letto profondo: lontano
la fiamma d’un vespro sanguigno
che splenda tra i cento comignoli
d’una città sconosciuta:
giacere in quel letto profondo;
udir con un senso inumano
d’angoscia il confuso lontano
eterno fragore del mondo:
sentire che per riposare
un sonno profondo non basta,
ma occorre una pace più vasta;

Giacere in un letto profondo,
già morto: ecco il solo momento
di vero riposo nel mondo!
Più tardi la terra ci afferra
e penetra e sbriciola in polvere
e volge in sé stessa ed evolve
e dissipa in preda del vento:
ma il letto sul quale si muore
concede per quarantott’ore
la pace assoluta, infinita.
Nessuna forma di vita
si svolge in quel tempo dal fondo
dell’uomo mutatosi in cosa;
quella materia riposa;
non vive, non vede, non sente:
sfasciandosi gradatamente,
rinunzia all’enorme fatica
di dover essere unita.

Il tema della reificazione è certo di schietta matrice crepuscolare ma questa aderenza piena, almeno nei momenti migliori, tra scansione prosciugata dei versi ed una sorta di psicologia residuale (“la cosa che soffre ed ha un io”, in altra parte del libretto) è ben valliniana nei mezzi e negli esiti poetici; del resto, se si pone orecchio alle rifrazioni generate dalla riduzione a cosa del soggetto, così centrale in Vallini, certe bizzarre coincidenze con la futura esperienza poetica di uno Sbarbaro, ad esempio, appariranno meno peregrine: si pensi al tema sbarbariano della folla contrapposta ad un soggetto poetico inerte, quindi si leggano versi come “la specie temuta, l’umana / specie simile a me:”, “la specie gravata dal cupo / retaggio d’un odio mai domo, / la specie maligna dell’uomo / che all’uomo sarà sempre lupo, / la specie infinita che figlia / in modo vertiginoso, / che figlia senza riposo / al pari d’una coniglia, / che germina, alligna, rampolla / ovunque possa trovare / un posto: e che forma quel mare / vivente detto la folla.”, “La folla! Ecco il nome tremendo / che mi sbiancava la faccia”.

Decantati i versi dagli elementi di prosaicità parodica, ecco visibile in filigrana quell’alleanza tra reificazione, teso stupore e molteplicità animalesca che successivamente giganteggerà nella poesia dell’essere di Camillo Sbarbaro. Il motivo di tali affinità è di ovvia evidenza: anche in Vallini è la disgregazione di un orizzonte culturale unitario a trasformare, da una parte, l’individuo poetante in cosa, dall’altra il sodalizio umano in una brutale sequenza di azioni svincolate le una dalle altre, all’interno di una disarticolazione coerente degli spazi soggettivi ed oggettivi. Quel « germina, alligna, rampolla », poi, è difficile che non faccia venire alla mente le « Fronti calve di vecchi, inconsapevoli / occhi di bimbi, facce consuete / di nati a faticare e a riprodursi » di Talor, mentre cammino per le strade del poeta ligure ed è interessante notare come, in questa sorta di passaggio di fiaccola da Vallini a Sbarbaro, la reificazione maturi fino a divenire una limpida cristallizzazione in immagini.


Opere di Carlo Vallini:
La rinunzia, 1907
Un giorno, 1907
Radda, 1912
Dizionario della mitologia classica, 1913
Le Prince de la Mer, 1914
Per una altezza, 1916
La ballata del carcere di Reading (traduzione in prosa da Oscar Wilde), 1920



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