~ Eternità & Rimbaud

Rimbaud et Verlaine au Cafè
Paul Verlaine presenta

RIMBAUD


Questo saggio, scritto da Paul Verlaine nel 1883 - quando Rimbaud aveva rinunciato da dieci anni alla letteratura ed era scomparso dall'Europa per vivere la più dura e oscura delle esistenze - rivelò alla Francia il grandissimo poeta, segnando l'inizio della sua gloria, e conserva tuttora l'accento d'una patetica ed eloquente testimonianza.



Arthur Rimbaud

Noi abbiamo avuto la gioia di conoscere Arthur Rimbaud. Oggi certe cose ci separano da lui senza che, beninteso, al suo genio e al suo carattere sia mai venuta a mancare la nostra profondissima ammirazione.

Nell'epoca relativamente lontana della nostra intimità, Arthur Rimbaud era un fanciullo dai sedici ai diciassette anni, già provveduto di tutto il bagaglio poetico che il vero pubblico dovrebbe conoscere e che noi cercheremo di analizzare citandone il più che ci sarà possibile.

L'uomo era alto, solido, quasi atletico, dal viso perfettamente ovale d'angelo in esilio, con capelli d'un color castano chiaro, in disordine, e occhi d'un inquietante azzurro pallido. Ardennese, possedeva, oltre a un grazioso accento campagnolo troppo presto perduto, il dono di pronta assimilazione proprio della gente di quel paese: e ciò può spiegare il rapido inaridirsi, sotto l'insipido sole di Parigi, della sua vena, per parlare come i nostri padri, il cui linguaggio diretto e corretto, in fin dei conti, non aveva sempre torto!

Ci occuperemo anzitutto della prima parte dell'opera di Arthur Rimbaud, opera della sua freschissima adolescenza - fanciullezza sublime, miracolosa pubertà! - per esaminar poi le diverse evoluzioni di questo spirito impetuoso, fino all'epilogo della sua attività letteraria.

Qui, una parentesi: e se queste righe dovessero cadere sotto i suoi occhi, ben sappia Arthur Rimbaud che noi non giudichiamo i moventi degli uomini, e sia sicuro della nostra completa approvazione (della nostra nera tristezza, anche) di fronte al suo abbandono della poesia: purché, come non dubitiamo, questo abbandono sia per lui logico, onesto e necessario.

L'opera di Rimbaud, nella parte che risale al periodo della sua estrema giovinezza - ossia 1869, 1870, 1871 è assai abbondante e formerebbe un rispettabile volume. Si compone di poesie generalmente brevi, sonetti, triolets, composizioni in strofe di quattro, cinque e sei versi. Il poeta non usa mai la rima baciata. Il suo verso, solidamente co- struito, ricorre raramente ad artifici. Poche licenze, in fatto di cesure, e ancor meno frequenti i nessi tra verso e verso. Sempre squisita la scelta delle parole, talvolta volutamente pedante. La lingua è netta e resta limpida anche quando l'idea si addensa o il senso s'oscura. Rime onorevolissime.

Non sapremmo trovare miglior giustificazione a quanto abbiamo detto, che presentandovi il sonetto Voyelles:

A nera, E bianca, I rossa, U
verde, 0 azzurra, vocali, io dirò, un
qualche giorno, le vostre nascite
latenti. A, nero corsetto villoso
delle mosche splendide che fan
cumuli intorno al fetori crudeli,

golfo d'ombra; E, candore dei
vapori e delle tende, lancia dei
ghiacciai superbi, re bianchi,
brividi d'umbelle; I, porpore,
sangue sputato, ridere delle labbra
belle nella collera o nelle ebbrezze
penitenti;

U, cicli, vibramenti divini dei
viridi mari, pace dei pascoli
cosparsi d'animali, pace delle
rughe che l'alchimia imprime sulle
grandi fronti studiose;

0, suprema Tomba piena di
stridori strani, silenzi attraversati
dai Mondi e dagli Angeli: 0,
l'Omega, raggio violetto dei Suoi
Occhi.

La Musa (tanto peggio! vivano i nostri 'padri!) la Musa, diciamo, d'Arthur Rimbaud prende tutti i toni, pizzica tutte le corde dell'arpa, gratta tutte quelle della chitarra e carezza la ribeca con un archetto agile quant'altro fu mai.

Spirito beffardo e motteggiatore impassibile, Arthur Rimbaud si dimostra tale, quando gli garba, al massimo grado, pur restando il grande poeta che Dio l'ha fatto.

Prova ne siano L'oraison du soir, e questi Assis da mettercisi in ginocchio davanti!

LA PREGHIERA DELLA SERA

Vivo seduto, come un angelo fra
le mani d'un barbiere, impugnando
una tazza di birra dalle grosse
scannellature, tesi il collo e
l'ipogastro, con una pipa Gambier
tra i denti, sotto i cieli gonfi
d'impalpabili vele.

Come escrementi caldi d'un
vecchio colombaio, mille sogni
fanno in me dolci ustioni: e, tratto
tratto, il mio cuore triste è come un
alburno insanguinato dall'oro
giallo e cupo delle scolature.

Poi, quando ho ringhiottito i miei
sogni con cura, mi volgo, dopo
aver bevuto trenta o quaranta
tazze, e mi raccolgo per dar sfogo
all'acre bisogno.

Mite come il Signore del cedro e
degli issopi, io piscio verso i cieli
bruni, molto in alto e lontano, col
consenso dei grandi eliotropi.


Les assis hanno una piccola storia, che bisognerebbe forse narrare, perché li si comprenda bene.

Arthur Rimbaud, allora alunno di seconda come esterno presso il liceo di ***, marinava la scuola su grande scala e quando si sentiva stanco - finalmente! - di percorrere a grandi passi monti, boschi e pianure, di notte e di giorno (che camminatore, infatti!), si recava alla biblioteca di detta città e chiedeva opere malsonanti alle orecchie dei bibliotecario in capo, il cui nome, poco acconcio per la posterità, danza sulla punta del nostro pennino. Ma che importa il nome di quel bonomo, in questo lavoro maledettino? L'eccellente burocrate, costretto dalle sue stesse funzioni a consegnare a Rimbaud, su richiesta di quest'ultimo, una quantità di Racconti Orientali e di libretti di Favart, il tutto intercalato da vaghi volumi scientifici molto antichi e molto rari, borbottava nel doversi alzare per questo monello e lo rimandava volentieri, a viva voce, ai suoi poco diletti studi, a Cicerone, a Orazio e a non sappiamo più quali Greci. li monello, che, d'altronde, conosceva e soprattutto apprezzava i suoi classici infinitamente meglio che non lo stesso furfante, fini per «arrabbiarsi»: onde il capolavoro in questione.

I SEDUTI

Neri di natte, butterati, cerchiati
gli occhi di anelli verdi, rattratte
sui lemori le dita nodose, incrostato
il sincipite di vaghe
ruvidezze simili alle inflorescenze
lebbrose dei vecchi muri,

hanno innestato in epilettici
amori la fantastica ossatura ai
grandi scheletri neri delle loro
sedie. I loro piedi s'intrecciano ai
piuoli rachitici, nei mattini e nelle
sere.

Questi vecchi hanno sempre
fatto treccia con le loro sedie,
sentendo i soli ardenti
percallizzare la loro pelle, o, cogli
occhi ai vetri su cui le nevi
appassiscono, tremando del
tremito doloroso dei rospi.

E le sedie hanno per loro delle
bontà. Consumata e annerita, la
paglia cede alle angolosità dei
loro deretani. L'anima dei vecchi
soli s'accende, fasciata in quelle
trecce di spiche in cui fermentò il
grano.

E i Seduti, ginocchia ai denti,
arzilli pianisti, con le dieci dita
sotto le sedie dai rumori di
tamburo, s'ascoltano ciangottare
tristi barcarole, e i loro testoni
dondolano in rulli d'amore.

Oh, noti fate che s'alzino! E' il
naufragio. Sorgono brontolando
come gatti battuti e aprendo
lentamente le loro scapole, oh
rabbia! I loro calzoni s'affagottano
sulle reni gonfiate.

E li udite che urtano le teste
calve contro i muri cupi, pestando
e pestando a terra i piedi contorti;
e i bottoni dei loro abiti sono
pupille selvagge che vi uncinano
lo sguardo dal fondo dei corridoi.

E poi hanno una mano invisibile
che uccide... Al ritorno, il loro
sguardo filtra quel nero veleno di
cui è pieno l'occhio sofferente
della cagna bastonata; e voi
sudate, presi in un atroce imbuto.

Nuovamente seduti, contratti i
pugni entro polsini sporchi,
pensano a coloro che li hanno
fatti alzare, e dall'aurora alla sera,
grappoli d'amígdali s'agitano
sotto i loro menti fino a scoppiare.

Quando l'austero sonno ha
abbassate le loro visiere,
sognano, sui bracciuoli fecondati,
dei veri amorini di seggiole di
cimosa da cui saranno circondate
orgogliose scrivanie.

Fiori d'inchiostro che sputano
pollini a virgole li cullano lungo
calici accoccolati, come lungo i
giaggioli il volo delle libellule - e il
loro membro si solletica a barbe di
spiche.


Abbiamo tenuto a citare integralmente questa poesia sapientemente e freddamente insolente, fino all'ultimo verso, cosí logico e di un'audacia cosi felice. Il lettore può in tal modo constatare la potenza d'ironia, il terribile brio del poeta, di cui ci restan da considerare i doni piú alti, doni supremi, magnifica testimonianza dell'Intelligenza, prova fiera e francese, prettamente francese, insistiamo in questi tempi di spregevole internazionalismo, d'una superiorità naturale e mistica di razza e di casta, affermazione incontestabile di questo immortale regno dello Spirito, dell'Anima e del Cuore umano: la Grazia e la Forza e la Grande Retorica negata dai nostri interessanti, dai nostri sottili, dai nostri pittoreschi, ma ristretti e, piú che ristretti, strozzati naturalisti del 1883!

Della Forza, abbiamo avuto un saggio nelle poesie sopra citate: dove tuttavia è ancora tanto rivestita di paradosso e di tremendo umorismo, da apparire in un certo senso mascherata. La ritroveremo nella sua integrità, perfettamente bella e idealmente pura, verso la fine di questo lavoro. Per il momento, è la Grazia che ci chiama: una grazia particolare, indubbiamente sconosciuta fino ad oggi, dove il bizzarro e lo strano salano e pigmentano l'estrema dolcezza, la divina semplicità del pensiero e dello stile.

Per conto nostro, non conosciamo in nessuna letteratura alcunché d'un po' selvaggio e di così tenero, di delicatamente caricaturale e di cosí cordiale, di cosí buono, e d'un getto franco, sonoro, magistrale, come Les effarés:

Neri nella neve e nella nebbia, davanti
al grande spiraglio che s'accende,
cinque piccini, coi culi in semicerchio,

guardano inginocchiati - oh, miseria! -
il fornaio che fa il pesante pane biondo.

Vedono il forte braccio bianco che
rigira la pasta grigia, e che l'inforna in un
buco luminoso;

ascoltano cuocersi il buon pane. Il
fornaio dal grasso sorriso canta una
vecchia arietta.

Stanno accoccolati, non uno si
muove, al soffio dello spiraglio rosso,
caldo come un seno;

e quando, ben foggiato, crepitante e
giallo, viene estratto il pane per una
qualche cena,

quando sotto le travi affumicate
cantano le croste profumate ed i grilli,

quando quel buco caldo soffia la vita,
la loro anima è tanto estasiata, sotto quei
cenci,

e si sentono vivere tanto bene, i poveri
Gesù coperti di brina, che tutti e cinque,

incollati ì rosei visetti all'inferriata,
borbottano delle cose tra quei buchi.

ma sottovoce - come una preghiera, -
curvi verso quella luce del cielo riaperto,

tanto che i calzoncini si rompono e la
camicia tremola al vento d'inverno.

Che ne dite? Noi, trovando in un'altra arte alcune analogie che l'originalità di questo «piccolo quadro» ci vieta di cercare tra tutti i poeti possibili, diremmo che si tratta d'un Goya, peggiore e migliore. Goya e Murillo, consultati, ci darebbero ragione, sappiatelo bene.


* * *

Ancora qualcosa di Goya nelle Chercheuses de poux: stavolta un Goya esasperatamente luminoso, bianco su bianco con effetti rosei e azzurri, e quel tocco singolare fino al fantastico. Ma quanto è sempre superiore il poeta al pittore, per l'altezza della commozione e per il canto delle buone rime!
Siate testimoni.

Quando la fronte del fanciullo, piena di
rosse tormente, implora lo sciame
bianco dei sogni indistinti, s'avvicinano
al suo letto due grandi sorelle
affascinanti, con fragili dita dalle unghie
argentine.

Fanno sedere il fanciullo accanto a
una finestra spalancata, dove l'aria
azzurra bagna un groviglio di fiori, e nei
suoi grevi capelli fra cui cade la rugiada,
fanno scorrere le loro dita fini, terribili e
incantatrici.

Egli ascolta cantare i loro timidi aliti
che odorano di lunghi mieli vegetali e
rosati, e che sono interrotti talvolta da un
sibilo, salive riprese sul labbro o
desiderii di baci.

Ode le loro ciglia nere che battono
sotto i silenzi profumati: e, tra le sue
grige indolenze, le loro dita elettriche e
soavi fan crepitare sotto le unghie regali
la morte dei piccoli pidocchi.

Ed ecco salire in lui il vino
dell'indolenza, sospiro d'armonica che
potrebbe delirare; il fanciullo si sente,
secondo la lentezza delle carezze,
sorgere e morire senza posa un
desiderio di piangere.

Perfino l'irregolarità della rima dell'ultima strofa, perfino l'ultima frase, che rimane come sospesa e sporgente tra la mancanza di congiunzione e il punto finale, accrescono, con una levità di schizzo e tremolo di fattura, il fragile fascino della lirica. E che bel movimento, che equilibrato ondeggiamento lamartiniano, nevvero?, in questi pochi versi che sembrano prolungarsi in un'atmosfera di sogno e di musica! Qualcosa di addirittura raciniáno, oseremmo aggiungere, e - perché non spingerci fino a questa confessione? - virgiliano.

Molti altri esempi di grazia, squisitamente perversa o casta tanto da rapirvi in estasi, ci tentano; ma i limiti normali di questo saggio, già lungo, ci impongono di lasciar da parte tanti delicati miracoli. Entreremo, senza piú indugiare, nel regno della Forza splendida, dove il mago ci invita con il suo Bateau ivre.

Mentre scendevo per Fiumi
impassibili, non mi sentii più guidato
dagli alzai: Pellirosse urlanti li avevan
presi per bersagli, dopo averli inchiodati
nudi ai pali colorati.

Non mi davo pensiero di alcun
equipaggio; Portavo grani fiamminghi o
cotoni inglesi. Quando finiron quei
rumori con i miei alzai, i Fiumi mi
lasciarono scendere dove volessi.

Negli sciacquii furiosi delle maree,
l'altro inverno io corsi, pia sordo che
cervelli di bimbi! e le Penisole
disormeggiate non subirono mai
tafferugli piú trionfali!

La tempesta benedisse i miei risvegli
marittími. Più leggero d'un sughero,
balzai sulle onde, che si dice travolgano
eternamente vittime, per dieci notti,
senza rimpiangere gli occhi stupidi delle
fiammate.

Piú dolce che pei bimbi la carne delle
mele acerbe, l'acqua verde penetrò nel
mio scafo d'abete, e mi lavò dalle
macchie di vini turchinicci e dai vomiti,
disperdendo timone e rampini.

E, da allora, mi bagnai nel poema del
mare infuso d'astri e lattescente,
divorando gli azzurri verdi, ove,
galleggiamento livido ed estasiato, un
annegato pensoso talvolta discende,

dove, tingendo a un tratto le azzurrità,
deliri e ritmi lenti sotto le rutilanze della
luce, piú forti dell'alcool, piú vaste delle
vostre lire, fermentano i rossori amari
dell'amorei

So i cieli che schiattano in lampi, e le
trombe e le risacche e le correnti; so la
sera, t'alba esaltata come un popolo di
colombe, e vidi qualche volta ciò che
l'uomo immaginò di vedere.

Vidi il sole basso macchiato di orrori
mistici, il illuminante lunghe
coagulazioni violette; vidi, simili ad attori
di drammi antichissimi, le onde rotolanti
lontano i loro brividi d'imposte.

Sognai la notte verde dalle nevi
abbagliate, baci salenti agli occhi dei
mari con lentezza; la circolazione delle
linfe inudite e il risveglio giallo e azzurro
dei fosfori canori.

Seguii per mesi interi, simili a mandre
isteriche di vacche, la mareggiata
all'assalto degli scogli, senza pensare
che i piedi luminosi delle Marie
potessero forzare il muso agli Oceani restii.

Urtai, sapete? contro incredibili
Floride, che frammischiano coi fiori
occhi di pantere dalla pelle umana!
arcobaleni tesi come briglie, sotto
l'orizzonte dei mari, con glauchi armenti.

Vidi fermentare le paludi, enormi nasse
in cui imputridisce fra i giunchi tutto un
Leviatan; vidi crolli d'acque in mezzo
alle bonacce e le lontananze che
piombano in cateratte verso gli abissi.

Vidi ghiacciai, soli d'argento, flutti
madreperlacei, cieli di bragia,
arrenamenti orribili in fondo ai golfi bruni
dove serpenti giganti divorati dalle cimici
cascano dagli alberi torti, con neri
profumi.

Avrei voluto mostrare ai fanciulli quelle
orate dell'onda azzurra, i pesci d'oro, i
pesci canori. Spume di fiori benedissero
le mie escursioni e ineffabili venti mi
resero a quando a quando alato.

Talvolta, martire stanco dei poli e delle
zone, il mare, il cui singhiozzo rendeva
dolce il mio rullio, alzava verso di me i
suoi fiori d'ombra dalle ventose gialle;
ed io restavo come una donna in
ginocchio,

penisola sballottante sulle mie rive i
litigi e gli escrementi d'uccelli
schiamazzanti dagli occhi biondi; e
vogavo, quando, attraverso i miei
ormeggi fragili, degli annegati
scendevano a dormire, rinculando.

Ora io, battello smarrito sotto i capelli
delle insenature, gettato dall'uragano
nell'etere senza uccelli, io, di cui i
Monitors e i velieri delle Anse non
avrebbero ripescata la carcassa briaca
d'acqua,

libero, fumante, montato da brume
violette, io che foravo il cielo
rosseggiante come un muro che porti,
confettura squisita poi buoni poeti,
licheni di sole e mocci d'azzurro,

io che correvo maculato di lunule
elettriche, tavola folle, scortato
dagl'ippocampi neri, quando i Lugli
facevano crollare a colpi di randello i
cieli oltremarini dagli ardenti imbuti,

io che tremavo, sentendo gemere a
cinquanta leghe la foia dei Behemont e
dei Maelstrom densi filatore eterno delle
immobilità azzurre, rimpiango l'Europa
dagli antichi parapetti.

Vidi arcipelaghi siderali ed isole i cui
cieli deliranti sono aperti al vogatore:
forse in quelle notti senza fondo dormi e
ti esilii, milione d'uccelli d'oro, o futuro
Vigore?

Ma, davvero, ho pianto troppo. Le albe
sono accoranti, ogni luna è atroce e ogni
sole amaro. L'acre amore m'ha gonfiato
di torpori inebbrianti. Oh! scoppi la mia
chiglia! che lo scenda in mare!

Se desidero un'acqua d'Europa, è la
pozzanghera nera e fredda in cui, verso
il crepuscolo balsamico, un fanciullo
accoccolato, pieno di tristezza, lasci
andare una barchetta fragile come una
farfalla di maggio.

Non posso più, bagnato dai vostri
languori, ondate, rapire la loro scia ai
portatori di cotone, né attraversare
l'orgoglio delle bandiere e delle fiamme,
né navigare sotto gli occhi orribili dei
pontoni.

Quale giudizio formulare ora sulle Premières communions? Poesia troppo lunga per trovar posto qui, soprattutto dopo il nostro eccesso di citazioni, e della quale, d'altronde, detestiamo altissimamente lo spirito, che ci sembra derivare da un disgraziato incontro con il Michelet senile ed empio, il Michelet di sotto la biancheria sporca femminile e di dietro Parny (l'altro Michelet, nessuno l'adora piú di noi). Sì, quale giudizio esprimere su questo pezzo colossale, se non dire che ne amiamo la profonda architettura e tutti i versi, senza eccezione?

Paris se repeuple, scritto all'indomani della « Settimana di sangue», è tutto un formicolio di bellezze.

PARIGI SI RIPOPOLA

0 vili, eccola! Riversatevi nellE stazioni!
Il sole asciugò con i suoi, polmoni ardenti
i boulevards che una sera furono colmati
dai Barbari. Ecco la Città santa, assisa
all'occidente!

Suvvia, si preverranno i riflussi
d'incendio! ecco i quais, ecco i
boulevards, ecco le case sull'azzurro
lieve che s'irradia e che una sera fu
scosso dal rossore delle bombe!

Nascondete i palazzi morti entro
nicchie di tavole! L'antica luce spaventata
rinfresca i vostri' sguardi. Ecco il gregge
fulvo delle contorcitrici di fianchi. Siate
pazzi, sarete bizzarri, essendo forsennati.

Massa di cagne in foia che mangian
cataplasmi, il arido delle case d'oro vi
chiamai Rubatel Mangiate! Ecco la notte
di gioia dagli spasimi profondi, che
scende nella via: o bevitori desolati,

tracannate! Quando la luce viene,
intensa e folle, frugando accanto a voi
nei lussi fluenti, non sbaverete senza
gesti, senza parole, nei vostri bicchieri,
smarriti gli occhi nelle lontananze
bianche?

Tracannate, per la Regina dalle natiche
cascanti! Ascoltate l'azione degli stupidi
singhiozzi strazianti. Ascoltate saltare
nelle notti ardenti gl'idioti rantolosi,
vecchi, burattini, lacché!

0 cuori d'immondizia, bocche
spaventose, funzionate piú forte, bocche
di fetori! Un vino, per questi torpori
ignobili, su queste tavole! i vostri ventri
son fusi dalle vergogne, o Vincitori!

Aprite le vostre narici alle superbe
nausee, imbevete di forti veleni le corde
dei vostri colli. Sulle vostre nuche di
fanciulli, abbassando le mani in croce, il
Poeta vi dice: 0 vili, siate pazzi!

Perché frugate nel ventre della Donna,
temete forse ancora da lei una
convulsione che gridi, asfissiando la
vostra infame nidiata sul suo petto, in
una orribile pressione?

Sifilitici, pazzi, re, marionette,
ventriloqui, che mai può importare di
questo a Parigi puttana? Le vostre anime
e i vostri corpi? I vostri veleni e i vostri
stracci? Essa si libererà di voi con una
sua scossa, o ringhiosi, o putrefatti,

e quando sarete a terra, gemendo sulle
vostre budella, morti i fianchi,
reclamando il vostro denaro, smarriti, la
rossa cortigiana dalle poppe gonfie di
battaglie, lungi dal vostro stupore torcerà
i suoi ardui pugni!

Poiché i tuoi piedi ballarono tanto forte
nelle tue collere, o Parigi! poiché ricevesti
tante coltellate, poiché giaci, trattenendo
nelle tue pupille chiare un po' della bontà
della selvaggia primavera,

o città dolorosa, o città quasi morta,
con la testa e i seni gettati verso
l'avvenire che apre sul tuo pallore i suoi
miliardi di porte, o città che il Passato
cupo potrebbe benedire,

o corpo rimagnetizzato per le enormi
fatiche, tu ribevi dunque la vita terribile,
tu senti sorgere il flusso dei vermi lividi
nelle tue vene e sul tuo luminoso amore
gironzare le dita agghiaccianti!

E non è male così. I vermi, i vermi lividi
non imbarazzeranno il tuo soffio di
progresso piú che le Strigi non
spegnessero l'occhio delle Cariatidi, in
cui lagrime d'oro astrale cadevano
da gradinate azzurre.

Quantunque sia orribile rivederti
coperta cosí; quantunque non sia mai
stata fatta d'una città un ulcera piú fetida
al cospetto della verde Natura, il poeta ti
dice: Splendida è la tua bellezza!

L'uragano ti ha consacrata suprema
poesia; l'immensa agitazione delle forze ti
soccorre; la tua opera bolle, il mare
rumoreggia. Città eletta, accumula gli
stridori nel cuore della sorda tromba!

Il Poeta coglierà il singhiozzo
degl'infami, l'odio dei forzati, il clamore dei
maledetti; e i suoi raggi d'amore
flagelleranno le donne, le sue strofe
balzeranno: Ecco! Ecco, furfanti!

- Società! tutto è ristabilito: le orge
piangono il loro rantolo antico negli
antichi lupanari, e i lumi in delirio, sulle
muraglie arrossate, fiammeggiano
sinistramente verso gli azzurri lividi!

[…] continua…

Collage Rimbaud

Il saggio di Paul Verlaine continua nel PORTALE DI RIMBAUD che Daubmir sta curando dinamicamente con sempre nuove aggiunte: et voilà! spalanca i cancelli lirici sul genio del Poeta Maledetto (ma poi, maledetto da chi...?) — clicca qui! >>


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