Poetica e Verità

Ritratto di Hans-Georg Gadamer, 1900-2002
GADAMER, IL CONTRIBUTO DELL'ARTE POETICA NELLA RICERCA DELLA VERITA'


[Tratto da Hans Georg Gadamer, L'attualità del bello]


H G GadamerGià per Goethe la relazione dei due concetti “verità e poesia” non è certo semplice rapporto di contraddizione, ma connessione reciproca. Egli dà questo titolo alla sua autobiografia, intendendo con esso l'aspetto positivo che il ricordo poetico ha per la verità.

Mi pare innegabile che il linguaggio poetico abbia una particolare relazione, ad esso totalmente peculiare, con la verità. Ciò si rivela in primo luogo nel suo non conformarsi in ogni tempo a qualsiasi contenuto, e poi anche nel fatto che quando un tale contenuto assume forma linguistico-poetica riceve per questo una specie di legittimazione. L'arte poetica giudica non solo della riuscita o del fallimento della poesia, ma anche della sua rivendicazione di verità...

La rivendicazione del poeta è posta in base alla sua arte e la sua arte è l'arte del linguaggio. La poesia è linguaggio in un senso eminente. Il poeta e la poesia che meritano questo nome si distanziano in modo essenziale da ogni forma di discorso motivato. Siamo volti interamente alla parola quale in sé si presenta, e non percepiamo affatto un contenuto determinato che possa giungerci da questo o da quello, in questa o quella forma. La poesia non ci sta dinanzi come qualcosa tramite cui qualcuno vorrebbe dire qualcosa. Essa sta salda in se stessa (steth in sich da). Nell'identico modo sta di fronte al poeta e a colui che ne fruisce. Svincolata da ogni intenzione è parola e pienamente parola!

Chiediamoci ora in qual senso a una tale parola sia peculiare la verità. La parola poetica è evidentemente cosiffatta da essere unica e insostituibile. Solo in questo caso definiamo qualcosa poesia. Dove ciò non si verifica, ma le parole ci appaiono arbitrarie, ci troviamo dinanzi a una poesia non riuscita. L'elemento però propriamente strano è che una poesia che ci convinca come produzione poetica, ci convince anche per quello che dice. E' un'esperienza universale che non tutto possa essere espresso in maniera poetica in tutte le epoche.

Chiederei: cosa significa che certe forme di espressione poetica non siano più “vere”? Qual senso di verità è mai questo? Già nella più antica filosofia greca “verità” ha un duplice senso. L'espressione greca aletheia, quale veniva usata nella viva prassi linguistica dei greci, può essere adeguatamente tradotta con “non-dissimulatezza” (Unverhohlenheit). Tale termine è infatti sempre connesso con espressioni del dire. Ma non-dissimulatezza significa: dire quel che si intende. Questo primo senso della verità intende dunque che si dica il vero, e cioè si dica cosa si pensa. Esso viene integrato però, e questo in modo particolare nell'uso linguistico della filosofia, da quell'altro senso secondo cui una cosa “esprime” (sagt) ciò che “intende” (meint): è vero quel che si mostra come ciò che è. Nel nostro proprio uso linguistico, corrisponde a questo fatto dire di qualcuno che è un vero amico. Con ciò intendiamo infatti che egli è uno che si è dimostrato amico, e non ha mostrato all'altro soltanto l'apparenza dell'attaccamento e del sentimento di amicizia, ma è risultato piuttosto un amico reale, “non-nascosto” (unverborgen), come dice Heidegger. E' in quest'ultimo senso che pongo il problema della verità della poesia.

Quando dico “un vero amico”, intendo che qui la parola corrisponde al suo concetto. Quest'uomo è realmente conforme al concetto di amico. Allo stesso modo chiedo ora: cos'è la parola poetica nella sua verità? In qual modo corrisponde al concetto di parola? La possibilità di essere un testo, di essere scritta, riguarda certamente la parola poetica; ma in quanto parola scritta essa è parola in un senso speciale e straordinario: vale a dire è una parola che sta scritta. Cosa vuol dire realmente “sta scritta”? Con questa espressione si intende non soltanto che qualcosa sia fissato in modo tale da poter sempre rianimarne il contenuto. Questo riguarda inequivocabilmente tutte le forme possibili di fissazione scritta.

Una poesia invece non è un ricordo dell'atto originario di un pensiero, utilizzabile soltanto ai fini di una sua riattualizzazione. Si tratta piuttosto del contrario, talmente del contrario che il testo possiede in questo caso molta più realtà di quanto possa mai pretenderne per sé ognuna delle sue riproduzioni. Sia che un poeta legga ad alta voce le sue stesse opere, sia che le declami un altro, ognuno sa che il detto rimane indietro rispetto a ciò che viene autenticamente inteso e a ciò rispetto a cui si misurano tutte le sue riproduzioni. Cos'è questa possibilità della parola di poter stare autonomamente per se stessa? Quello poetico è un dire che si enuncia completamente, tale cioè da non doversi aggiungere nulla alla sua realtà linguistica, al fine della sua comprensione, che non vi sia già detto. Esso è “autonomo” nel senso dell'autorealizzazione. Tale è la parola del poeta.

La parola poetica è dunque enunciazione nel senso che il suo dire attesta se stesso e non ammette nulla di estraneo tendente a verificarlo. Di solito possiamo controllare un'enunciazione [se aderisca o meno alla realtà dei fatti]. La parola poetica evidentemente non ha più questo senso, e il problema che qui rimane aperto sarà così formulabile: come può un dire esser tale da lasciar apparire insensato e del tutto travisante anche soltanto richiedere un'altra istanza di verificazione che vada al di là dell'esser detto? “Verità nella poesia” significa: come può la parola del poeta convalidare se stessa fino al punto da respingere qualsiasi richiesta di verificazione dall'esterno? Il poeta riesce ad evocare l'autorealizzazione del linguaggio. In qual modo riesce a far ciò il poeta, e con quali mezzi?

Vorrei introdurre a questo punto una breve riflessione marginale. In modo palese, la parola della poesia è intrecciata indissolubilmente da un lato col suono e dall'altro col significato. La misura di questo intreccio può essere più o meno grande. Mi riferisco in special modo alla poesia lirica: Si offre qui davanti agli occhi di ciascuno il caso della intraducibilità nella sua più radicata incondizionatezza. Non esiste infatti alcuna traduzione di poesie liriche che riesca a conseguire un'effettiva efficacia rispetto all'opera originaria. Nel caso migliore abbiamo un poeta che si imbatte in un poeta e, per così dire, pone una nuova opera poetica al posto dell'altra. La parola poetica non si realizza a partire da qualcos'altro, per esempio attraverso una verifica convalidante, come nel caso di un'informazione, o attraverso una nuova esperienza, ma a partire da se stessa. Autorealizzazione significa infatti non rinviare più ad altre istanze. Ma allora, quel che contrassegna il linguaggio poetico è la suprema realizzazione del manifestare (deloun) che è il compito del parlare in generale. Mi pare perciò una teoria estetica fuorviante quella che interpreta la parola poetica come una concentrazione di momenti emozionali e significativi che si aggiungono alla parola quotidiana. Tutto questo può certamente risultare vero. Una parola però non diviene poetica per questo, ma perché ha la forza di “realizzarsi”. Qualora un poeta descriva con le sue parole una casa, oppure rievochi l'immagine della “casa”, vediamo non una casa qualsiasi, ma ognuno costruisce la “sua” casa, e cioè in modo tale che per lui esiste “la casa”. In tal senso la parola è qui vera, e cioè svelante: essa compie tale autorealizzazione. L'elemento positivo, “posto”, che si può incontrare anche altrove, così che si è in grado di verificare se una nostra enunciazione concorda con esso, risulta sospeso nella parola poetica. Eppure è fuorviante concepire ciò come coscienza indebolita della realtà, diciamo come una ridotta capacità di porre della coscienza. Al contrario. La realizzazione avvenuta tramite la parola respinge ogni paragone con altro che le sia compresente, sollevando il detto al di sopra della particolarità che siamo soliti chiamare realtà. Che essa faccia questo, che non miri qui a un mondo in segno di conferma, bensì, al contrario, nella poesia si costruisca il mondo stesso della poesia, è certo incontestabile.

Mi chiedo come risulti possibile alla parola fare in modo che, d'un tratto, ci rifiutiamo di cercare una verifica del detto. Questo per esempio totalmente evidente in Hölderlin, il quale annuncia il ritorno degli dèi. Chi crede seriamente di dover attendere il ritorno degli dèi greci come qualcosa di promesso per il futuro non ha compreso cos'è la poesia di Hölderlin. “Nella poesia aleggia il loro spirito”. In qual modo compie questo il poeta? Come può la poesia fare in modo che la sua parola, in quanto forma linguistica enunciata dal poeta, d'improvviso sia “così”, e intendo con ciò: così che essa non tanto intenda qualcosa, ma sia la presenza stessa di ciò che intende, e questo punto tale che lo stesso poeta, quando la ode, non può quasi comprendere di essere lui ad averla detta? Cosa significa che un contenuto determinato, qualcosa di inteso in modo determinato, per il solo fatto che una poesia c'è, giunga per così dire ad arrestarsi sul sentiero dell'apparire di questa parola vera? Pensiamo ancora una volta alle nostre riflessioni iniziali. Dicevamo allora: ogni parlare dice qualcosa, e poter lasciarsi dire qualcosa, oppure poter dire qualcosa a qualcuno, presuppone che per uno ci sia qualcosa di apertamente problematico che induce ad accettare la parola come risposta. Come si presenta la questione rispetto all'opera poetica? Qui non si tratta di ciò che il poeta intende o di ciò che lo motiva a dire questa o quella cosa. Si tratta piuttosto della domanda cui è data risposta attraverso quel che nella poesia si è potuto o si è stati in grado di fare, e di null'altro “dietro a questo”. Che specie di domanda è mai questa? Quale superamento di motivazioni occasionali e vincoli storici si è realizzato e in qual modo? A quale domanda una forma poetica continua a costituire una risposta?

Credo non sia sufficiente dire che in tutte le forme poetiche giungono alla risposta le questioni ultime della nostra esperienza della vita umana e che attraverso ciò ci interpellano... Non dovremmo forse chiedere a quale domanda ogni forma poetica è sempre una risposta? Forse si delinea un chiarimento se riprendo ciò che all'inizio ho descritto come elemento comune di ogni parlare: quel che viene evocato dalla parola “c'è” (ist da). E' decisivo che la parola evochi l'esserci (Dasein), che questo sia a portata di mano. Questa è la verità della poesia: che essa realizzi questo “mantenimento della prossimità”. Una vera poesia fa esperire la prossimità, in modo tale che questa prossimità venga mantenuta attraverso la poesia e la sua forma linguistica. Quale prossimità e rispetto a che cosa? Cosa viene qui mantenuto? Quando si debba mantenere qualcosa, quel che si deve mantenere è sfuggente, ossia vorrebbe sfuggire.

In effetti la nostra esperienza originaria di esseri temporali è proprio che tutte le cose ci sfuggono, che più o meno tutti i contenuti della nostra vita si scolorano, così che al massimo soltanto nel più remoto ricordo rilucono ancora con un bagliore quasi irreale. Ma la poesia non si scolora. La parola poetica arresta, per così dire, lo sfuggire del tempo. Anch'essa “sta scritta” come un “dire” (Sage) che mette in gioco la sua peculiare presenza. Potrebbe essere appunto connesso con questa forza della parola poetica il fatto che il poeta si senta provocato a tramutare in parola anche ciò che pare sottrarsi assolutamente alla sfera dell'espressione. Nell'ambito della poesia lirica questa autorealizzazione sembra particolarmente enigmatica là dove l'unità significativa del discorso poetico non si lascia affatto verificare, come nel caso della poésis pura a partire da Mallarmé. Ci chiediamo ancora una volta: come realizza se stessa la poesia lirica e con quali mezzi? Tale “stare della parola” (Stehen des Wortes) mi pare accenni alla situazione fondamentale dell'uomo che Hegel ha descritto come ambientarsi (Heimischwerden). Il compito essenziale, che tutti conosciamo per esperienza personale, è che ci si “accasi” (einhaust) nel flusso ininterrotto delle impressioni. Questo avviene soprattutto nell'apprendimento della madrelingua in cui si struttura l'ordine crescente di una totalità di esperienza compresa linguisticamente. E la stessa lingua materna, in quanto realizza con ciò questa prima articolazione del mondo in cui permanentemente ci muoviamo, acquisisce nel contempo una dimestichezza crescente. Ognuno sa cosa significa avere sensibilità linguistica. Qualcosa suona estraneo, qualcosa non è “esatto”. Di questo facciamo costantemente esperienza, per esempio nelle traduzioni. Quale familiarità viene qui delusa? Quale prossimità viene qui rimossa? E cioè, Quale familiarità ci sorregge quando stiamo parlando? Quale prossimità ci circonda? Risulta palese che in tal caso acquisiamo sempre maggior dimestichezza non soltanto con parole e locuzioni della nostra lingua, ma anche con ciò che tramite le parole vien detto.

L'affondare le radici in una lingua significa, a tale riguardo, che il mondo già sempre si approssima e giunge ad arrestarsi in un ordine spirituale. Le parole rimangono le articolazioni fondamentali che guidano la nostra comprensione del mondo. Appartiene alla familiarità del “mondo” che esso si comunichi nel discorrere insieme. La parola del poeta, però, non prosegue semplicemente questo processo di accasamento (Einhausung). Essa piuttosto compare di fronte a questo come uno specchio tenutogli davanti. Ma ciò che appare in esso non è il mondo, e a maggior ragione non questa o quella cosa che è nel mondo, ma la prossimità stessa, la familiarità stessa in cui ci tratteniamo. nella parola letteraria e, nella sua più elevata perfezione, nella poesia, ottengono dimora sia questo soffermarsi sia questa prossimità. Non è una teoria romantica, ma una semplice descrizione di connessioni reali, dire che la linguisticità dischiude l'accesso universale al mondo e che in questo accesso linguistico al mondo emergono forme straordinarie dell'esperienza umana: la parola poetica attesta la nostra esistenza, essendo esistenza (Dasein) essa stessa.



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