~ Fosco Foscolo
DAI SONETTI DI UGO FOSCOLO
A ZACINTO
Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
Del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L'inclito verso di colui che l'acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il,canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.
ALLA SERA
Forse perché della fatal quiete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensieri su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch'entro mi rugge.
NON SON CHI FUI...
Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.
Perché dal dì ch'empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
la fame d'oro, arte è in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.
TE NUDRICE ALLE MUSE
PER LA SENTENZA CAPITALE PROPOSTA NEL GRAN
CONSIGLIO CISALPINO CONTRO LA LINGUA LATINA
Te nudrice alle muse, ospite e Dea
le barbariche genti che ti han doma
nomavan tutte; e questo a noi pur fea
lieve la varia, antiqua, infame soma.
Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
ti han morto il senno ed il valor di Roma,
in te viveva il gran dir che avvolgea
regali allori alla servil tua chioma.
Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste
ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero.
PERCHE' TACCIA
Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme, e di amor vivo,
e di silenzio; ché pietà mi affrena
se di lei parlo, o di lei penso e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena,
qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena.
E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d'immortal raggio il mio core,
come la rosea bocca, e i rilucenti
odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m'insegnarono alfin pianger d'amore.
COSI' GL'INTERI GIORNI
Così gl'interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il freddo aer di mute ombre è coverto;
dove selvoso è il piano più deserto
allor lento io vagabondo, ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fotuna,
e amore, e il mondo hanno il mio core aperto.
Stanco mi appoggio or al troncon d'un pino,
ed or prostrato ove strpitan l'onde,
con le speranze mie parlo e deliro.
Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obbliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei chi mi t'asconde?
MERITAMENTE
Meritamente, però ch'io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton l'alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i venti.
Sperai, poiché mi han tratto uomini e Dei
in lungo esilio fra spergiure genti
dal bel paese ove meni sì rei,
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,
sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
rupi ch'io varco anelando, e le eterne
ov'io qual fiera dormo atre foreste,
sarien ristoro al mio cor sanguinente;
ahi vota speme! Amor fra l'ombre e inferne
seguirammi immortale, onnipotente.
SOLCATA HO FRONTE
Solcata ho la fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto;
giuste membra; vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:
talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace:
di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.
SEPOLCRI
All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
Bella d'erbe famiglia e d'animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l'ore future,
Né da te, dolce amico, udrò più Il verso
E la mesta armonia che lo governa,
Né più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell'amore,
Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a' dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle Infinite
Ossa che in terra e In mar semina morte?
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose l'obblio nella sua notte;
E una forza operosa le affatica
Di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe
E l'estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé Il mortale
Invidierà l'illusion che spento
Pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l'armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de' suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d'amorosi sensi,
Celeste dote è negli umani; e spesso
Per lei si vive con Pamico estinto,
E l'estinto con noi, se pia la terra
Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo
Porgendo, sacre le reliquie renda
Dall'insultar de' nembi e dal profano
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori odorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.
Sol chi non lascia eredità d'affetti
Poca gioja ha dell'ur'na; e se pur mira
Dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
Fra 'l compianto de' templi acherantei
0 ricovrarsi sotto le grandi ale
Del perdono d'Iddio; ma la sua polve
Lascia alle ortiche di deserta gleba
Ove né donna innamorata preghi,
Né passeggier solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura.
Pur nuova legge impone oggi I sepolcri
Fuor de'.guardi pietosi, e il nome a' morti
Contende. E senza tomba giace il tuo
Sacerdote, o Talia, che a te cantando
Nel suo povero tetto educò un lauro
Con lungo amore, e t'appendea corone;
E tu gli ornavi del tuo riso i canti
Che Il lombardo pungean Sardanapalo
Cui solo è dolce il muggito de' buoi
Che dagli antri abduani e dal Ticino
Lo fan d'ozj beato e di vivande.
0 bella Musa, ove sei tu? Non sento
Spirar l'ambrosia, indizio del tuo Nume.
Fra queste piante ov'io siedo e sospiro
Il mio tetto materno. E tu venivi
E sorridevi a lui sotto quel tiglio
Ch'or con dimesse frondi va fremendo
Perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio
Cui già di calma era cortese e d'ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
Vagolando. ove dorma il sacro capo
Del tuo Parini? A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D'evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l'ossa
Col mozzo capo gl'insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti' raspar fra le macerie e i bronchi
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse, e famnelica ululando;
E uscir del teschio, ove fuggia la Luna,
L'ùpupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l'immonda accusar col luttuoso
Singulto i rai di che son pie le stelle
Alle obbliate sepolture. Indarno
Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
Dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
Non sorge fiore, ove non sia d'umane
Lodi onorato e d'amoroso pianto.
Dal dì che nozze e tribunali ed are
Diero alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d'altrui, toglieano i vivi
All'etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura
Con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a' fasti eran le tombe,
Ed are a' figli; e uscian quindi i responsi
De' domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento:
Religion che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d'anni.
Non sempre i sassi sepolerali a' templi
Fean pavimento; né agi incensi avvolto
De' cadaveri il lezzo i supplicanti
Contaminò; né le città fur meste
D'effigiati scheletri: le madri
Balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono
Nude le braccia su l'amato capo
Del lor caro lattante onde nol desti
Il gemer lungo di persona morta
Chiedente la venal prece agli eredi
Dal santuario. Ma cipressi e cedri
Di puri effluvj i zefiri impregnando
Perenne verde protendean su l'urne
Per memoria perenne, e preziosi
Vasi accogliean le lacrime votive.
Rapian gli amici una favilla al Sole
A illuminar la sotterranea notte,
Perché gli occhi dell'uom cercan morendo
Il Sole; e tutti l'ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte e a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d'aura de' beati Elisi.
Pietosa insania, che fa cari gli orti
De' suburbani avelli alle britanne
Vergini dove le conduce amore
Della perduta madre, ove elementi
Pregaro i Genj del ritorno al prode
Che tronca fe' la trionfata nave
Del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d'inclite geste
E sien ministri al vivere civile
L'opulenza e il tremore, inutil pompa,
E inaugurate immagini dell'Orco
Sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed Il patrizio vulgo,
Decoro e mente al bello italo regno,
Nelle adulate reggie ha sepoltura
Già vivo, e i sternmi unica laude. A noi
Morte apparecchi riposato albergo,
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle vendette, e l'amistà raccolga
Non di tesori eredità, ma caldi
Sensi e di liberal carme l'esempio.
A egregie cose il forte animo accendono
L'urne de' forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. lo quando Il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande,
Che temprando lo scettro a' regnatori,
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l'arca di colui che, nuovo Olimpo
Alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide
Sotto l'etereo padiglion rotarsi
Più mondi, e il Sole irradiarli immote,
Onde all'Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmarnento;
Te beata, gridai, per le felici
Aure pregne di vita, e pe' lavacri
Che da' suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell'áer tuo veste la Luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti, e le convalli
Popolate di case e d'oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi:
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco,
E tu i cari parenti e l'id'ioma
Desti a quel dolce di Calliope labbro
Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D'un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste.
Ma più beata ché in un tempio accolte
Serbi l'itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l'alterna
Onnipotenza delle umane sorti
Armi e sostanze t'invadeano ed are
E patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
Intelletti rifulga ed all'Italia,
Quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a' patrii Numi, errava muto
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desioso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l'austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno, e l'ossa
Fremono amor di patria. Ah sì! da quella
Religiosa pace un Nume parla:
E nutria contro a' Persi in Maratona
Ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,
La virtù greca e l'ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l'Eubèa,
Vedea per l'ampia oscurità scintille
Balenar d'elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche
D'armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all'orror de' notturni
Silenzj si spandea lungo ne' campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube,
E un incalzar di cavalli accorrenti
Scalpitanti su gli elmi a' moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de' venti,
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l'antenna
Oltre l'isole egèe, d'antichi fatti
Certo udisti suonar dell'Elleaponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode retèe l'armi d'Achille
Sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte;
Né senno astuto, né favor di regi
All'Itaco le spoglie ardue serbava,
Ché alla poppa raminga le ritolse
L'onda incitata dagl'inferni Dei.
E me che i tempi ed il desio d'onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de' sepolcri e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l'armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
Eterno, splende a' peregrini un loco
Eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio
Onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
Talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
Che lei dalle vitali aure del giorno
Chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove
Mandò ìl voto supremo: E se, diceva,
A te, fur care le mie chiome e il viso
E le dolci vigilie, e non mi assente
Premio miglior la volontà de' fati,
La morta amica almen guarda dal cielo
Onde d'Dlettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L'Olimpio; e l'immortal capo accennando
Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
E fe' sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme Il giusto
Cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
Da' lor mariti l'imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che Il Nume In petto
Le fea parlar di Troia il di mortale,
Venne, e all'ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepotì, e l'amoroso
Apprendeva lamento ai giovinetti.
E dicea sospirando: Oh, se mai d'Argo,
Ove al Tidìde e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! Le mura opra di Febo
Sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Pepati di Troja avranno stanza
In queste tombe; ché de' Numi è dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi presto!
Di vedovili lagrime Innaffiati,
Ptoteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l'altare.
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne,
E interrogarle. Gemeranno gli'antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Igio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le muto vie
Per far più bello l'ultimo trofeo
Ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finché il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.
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