~ il grido di un uccello sugli scogli
...un cri d'oiseau sur les recifs
-St. John Perse
THOMAS MERTON E LA FILOSOFIA DELLA SOLITUDINE
Y Una nota sulle sue Note
Il saggio Notes for a Philosophy of Solitude apparve nel libro Disputed Questions (New York: Farrar, Straus and Cudahy, 1960). Il trattato è composto di tre parti: 1. La Tirrania dello Svago, 2. Il Mare Periglioso e 3. Povertà Spirituale.
Si tratta della più completa articolazione del pensiero di Merton sulla solitudine, che rappresenta il completamento dei precedenti argomenti in difesa del monachesimo e della vita eremitica. Nelle Notes si estende la filosofia della solitudine ai laici e, quindi, a tutti i lettori. Una nota riferita al titolo spiega che sebbene il saggio avrebbe dovuto intitolarsi "Filosofia della vita monastica", Merton riprende il significato etimologico di monachos, 'solitario':
Sto evitando deliberatamente tutto quello che può contribuire all'immagine artefatta del monaco in saio, che abita in un chiostro medievale. In questa direzione non intendo, ovviamente, disprezzare e rifiutare l'istituzione monastica, ma mettere da parte tutti i fattori contingenti ed esteriori, così che non interferiscano con la mia visione di ciò che mi sembra più profondo ed essenziale.Merton dice di pensare al solitario laico del genere di "Thoreau o Emily Dickinson."
Parte prima: La Tirannia dello Svago
La premessa alle Notes è che tutti siamo dei solitari in termini esistenziali, mai completamente consci della nostra solitudine perchè si permette alla società di riempirci la mente e il cuore con "lo svago, la distrazione sistematica, o per usare il termine di Pascal il divertissement."
La funzione dello svago è semplicemente anestetizzare l'individuo come individuo, e immergerlo nel tiepido apatico stupore di una collettività che, come lui, desidera divertirsi. Il meccanismo di "panem et circenses" che assolve questa funzione può essere chiassoso e assurdo, o assumere un'aria di acritica e intensa gravità.
La nostra società preferisce l'assurdo. Ma la nostra assurdità è mescolata con una certa pesantezza mentale che è determinata dalla serietà con cui dedichiamo noi stessi all'acquisizione di denaro, alla soddisfazione delle ambizioni sociali e dalla auto-giustificazione di perseguitati dalla iniquità dittatoriale dei nostri oppositori.
Merton afferma in seguito che la solitudine interiore non risolve automaticamente il dilemma dell'individuo moderno. Né la solitudine è priva di difficoltà. La prima difficoltà è la "sconcertante prova dell'affrontare la propria assurdità". Quando si rimuove la maschera della società normale e organizzata, la maschera diversiva, l'individuo si trova a confronto con "l'abisso dell'irrazionalità, della confusione, della dispersione e ... del caos apparente".
Solo a questo punto è possibile la fede, la vera fede che è l'opposto dell'intrattenimento spirituale, altro genere di svago. Privandoci delle illusioni della società, vediamo la profondità del mistero di Dio, l'unità del reale, dell'assenza di cose e di pensieri, "l'indicibile bellezza del Cuore all'interno del cuore della propria vita".
Tutti si muore da soli e perciò si è uniti nel mistero della morte. Allo stesso modo, la solitudine in cui si scopre il nostro vero sé, ci unisce nella solitudine di tutti.
Il solitario non deve semplicemente ritirarsi dalla società ("la solitudine del disgusto") ma deve trascenderla. Si rinuncia al gruppo, definito dalle "aspirazioni, finzioni e convenzioni" sociali, per congiungersi a tutte le persone nella trascendenza, in modo soprannaturale, precisamente mediante la solitudine di ciascuno. Se la società rende ogni individuo utile - alla finzione - la solitudine rende l'individuo autenticamente utile alla società e , quindi, portato a trascenderla. Il solitario quindi rifiuta tutto ciò che è artificioso, tutto quello che non ha trascendenza. In questo processo, il solitario deve rinunciare alla consolazione di ogni illusione di comodo, che possa scioglierlo dalla sua responsabilità quando si discosta dal sé profondo e dalla intima verità - l'immagine di Dio nell'anima.
Il prezzo della fedeltà in questa prova è una umiltà totalmente dedicata - un vuoto del cuore in cui l'auto-affermazione non ha alcun posto.
Merton insiste che il non-conformismo non è ribellione, poichè essa crea nuove illusioni, di tipo soggettivo, al posto del tipo sociale. Che possono essere peggiori dell'accettazione dei miti sociali. Ma per stare in guardia contro una falsa religione o una mitologia del narcisismo - "un mondo di finzioni private e di illusioni auto-imposte" - è necessario diventare "completamente risvegliati", pienamente coscienti.
Quindi, la solitudine si deve caratterizzare con "il vuoto, l'umiltà e la purezza". Il solitario si tira fuori dalle diversioni che lo alienano da sé e da Dio per vivere in unità trascendente.
La sua solitudine non è un argomento, un'accusa, un rimprovero o un sermone. E' semplicemente la vita stessa. E'. Non solo non attira l'attenzione, e non la desidera, ma rimane perlopiù completamente invisibile.
Merton insiste fortemente sulla distinzione tra il solitario e l'individualista. L'individualista non ricerca la trascendenza, ma solo una più alta forma di auto-coscienza, una più alta forma di svago. Non rifiuta i miti sociali, ma li mantiene come sfondo ai suoi propri miti. Non cerca il nascosto e il metafisico, ma il compiacimento di sé. In breve, il modello dell'individualista non è il deserto, ma il ventre materno.
Parte seconda: Nel Mare Periglioso
Per Merton il vero solitario è uno che rinuncia all'immaginario sociale. Il vero solitario è unito agli altri mediante valori che trascendono quelli di stato-nazione, classe, gruppo o altre strutture arbitrarie che servono a dividere la famiglia umana.
Il primo di questi valori unificatori è la solitudine di ciascun individuo, l'unicità e il mistero profondo della persona, il sé. Questa paradossale unicità nell'unità fa della solitudine "il fondamento di una profonda, pura e gentile simpatia per tutti gli uomini, che essi siano o no capaci di realizzare la tragicità della loro situazione".
In questa solitudine e vacuità del cuore, si trova un'altra, più inesplicabile, solitudine. La solitudine dell'uomo è, di fatto, la solitudine di Dio.
Realizzare che la propria solitudine riflette la solitudine di Dio, porta a concludere che la fedeltà alla solitudine è fedeltà a Dio.
L'eremita dunque è il testimone di una profonda verità. Rimane nascosto al fine di riflettere il carattere trascendente di questo mistero. Eppure, in un contesto cristiano, professa apertamente questa solitudine e perciò riveste una funzione importante nella comunità.
Sebbene l'eremita, non solo non è del mondo, ma neppure è nel mondo, parlando concretamente, è curioso che gli eremiti del deserto erano riconosciuti non solo per il loro estremo ascetismo, ma anche per la loro profonda carità e discrezione. Merton puntualizza che niente di ciò fu fatto al di fuori della liturgia istituzionale e delle sue funzioni. Ma questa ebbe successo solo perchè gli eremiti erano completamente svuotati di sé. Perciò la vocazione della solitudine è una vocazione "al silenzio, alla povertà e alla vacuità".
Il fine della vita solitaria è, se vogliamo, la contemplazione. Ma non nel senso "pagano" di una illuminazione intellettuale o esoterica, conseguita mediante tecniche ascetiche. La contemplazione del solitario cristiano è la consapevolezza della grazia divina, che trasforma ed eleva la vacuità e la rivolge alla presenza dell'amore perfetto, della perfetta pienezza.
Questo è un passaggio che Merton non avrebbe mai modificato, anche se i suoi interessi si rivolsero verso il misticismo classico cristiano e orientale, lo Zen in special modo. Merton distingue la filosofia greco-romana dalle filosofie orientali e occidentali, in cui l'elemento trascendente è sviluppato nella psicologia e nella metafisica. Con estrema attenzione districa questa spiritualità dall'eccesso di ritualismo, di attivismo e persino di socialità. La sua forma di illuminazione non dipende da elementi intellettuali, razionali o dall'ascetismo estremo. E' molto vicina alle proposte del Merton maturo, già menzionate: il misticismo cristiano e il buddhismo zen.
Merton anticipa la principale obiezione al ritiro dal mondo: "dobbiamo fare qualcosa per le difficoltà dell'umanità". L'amore per gli esseri umani non può essere espresso solo da un tipo particolare di aiuto o di azione sociale. Piuttosto la solitudine manifesta l'amore concentrandolo su Dio. Merton teme che le "forme simboliche visibili" dell'attività pubblica inevitabilmente perdano la purezza perchè devono essere eseguite insieme ad altri o nel dominio pertinente agli altri. Il ritiro è in sé una potente testimonianza e un'azione deliberata che mira a una visione più nitida del mondo.
Questa posizione rispetto al mondo non deve essere espressione di ribellione (come detto in precedenza) ma il frutto di una rigorosa spiritualità.
Tali uomini, i solitari - senza indulgenza per il mondo, senza attaccamento per l'umano, e senza provare amarezza o di risentimento - si ritirano nel salutare silenzio del deserto, o della povertà, o dell'oscurità, non al fine di predicare ad altri la via, ma di curare in se stessi la ferita del mondo intero.
Merton cerca di definire ulteriormente il suo concetto del solitario ideale, che non è l'anticonformista che si adatta controvoglia al mondo. Il punto essenziale è che il solitario lascia deliberatamente la sua vita alle spalle e si incammina nel deserto, in ogni senso.
Sono sempre esistiti dei solitari che, grazie ad una purezza straordinaria e alla semplicità del cuore, sono stati dedicati fin dalla prima giovinezza alla vita eremitica e contemplativa, in forma ufficiale. Merton si riferisce ai Certosini e ai Camaldolesi. Annota, tuttavia, che nemmono questi rappresentano il suo ideale di solitario. Piuttosto i suoi solitari ideali sono:
i paradossali, tormentati solitari per cui non esiste un luogo preciso; uomini e donne che non hanno scelto la solitudine, ma ne sono stati scelti. E questi generalmente non hanno trovato la via del deserto grazie alla semplicità o all'innocenza. Loro è la solitudine che si raggiunge per la via più ripida, attraverso la più amara sofferenza e il disinganno.In retrospettiva, possiamo certamente contare Merton stesso tra questi.
Questi, cui sembra che sia stata la solitudine a sceglierli, invece che arrivarci per altre vie, accettano o vivono il tormento e l'alienazione. Non sono solitari perchè si sono ritirati da una moltitudine o perchè l'hanno attraversata allegramente. Invece, la loro solitudine è nata da un'unione interiore che la massa dell'umanità ignora, un'unità che è
segreta e inconoscibile. Anche coloro che vi entrano, conoscendo solo quella, parlano di 'ignoto'. E' quel vasto deserto di vacuità che appartiene a tutti e a nessuno. E' il luogo del silenzio in cui vibra la parola di Dio. E in quella parola si esprime Dio e tutte le cose.Merton parla di questo sentimento con sicurezza e senza riserve. Dice della profonda onestà dell'eremita e della sua integrità. Paragona l'eremita a uno straniero e a un vagabondo. All'eremita non è permesso avere delle eccentricità o delle personali soluzioni ai problemi, suoi o altrui. La vita del vero solitario è "un'arida e selvaggia purificazione del cuore" in cui giace il nucleo spirituale al di là della parola e della logica. La solenne solitudine dell'eremita ci ricorda che ciascuno di noi deve confrontarsi con Dio, soltanto.
Il solitario non è automaticamente un mistico. La solitudine è umiltà, o povertà spirituale. E' insicurezza fisica e sociale. E' "povertà fisica e materiale priva di supporti visibili".
L'eremita rimane nel suo stato per provare, grazie alla mancanza di utilità pratica e all'apparente sterilità della sua vocazione, che i monaci cenobiti dovrebbero avere poca importanza mondana, o piuttosto nessuna. Essi sono indifferenti al mondo, perciò non dovrebbero più possedere un ruolo in esso. E il mondo è indifferente a loro.
E, per estensione, la vita cenobitica, che è la vita di persone integrate in una società, è indifferente ai veri solitari. Malgrado la vita nella società moderna non lasci spazio alla contemplazione o alla compassione, non tocca quella compassione universale vissuta dal solitario.
Parte terza: Povertà Spirituale
La conclusione di Merton ai primi due capitoli, introduce il terzo: "La vita di un eremita è fatta di povertà materiale e fisica, priva di supporti visibili".
L'eremita non è automaticamente una persona più spirituale, priva di preoccupazioni, di interessi, o di frustrazioni e insicurezze. L'immagine di Robinson Crusoe "non è il mito dell'eremita, ma dell'individualismo pragmatico", che ha una risposta astuta e sicura per ogni problema pratico. L'eremita non ha tali convinzioni. L'esperienza dell'eremita (e questa non è un'analogia di Merton, ma potrebbe esserlo) non è l'oasi paradisiaca di Crusoe, ma l'arido deserto e la siccità del cuore descritti da Giovanni della Croce, sebbene più umilmente, con maggiore angoscia.
Merton usa il vocabolario forte dell'esistenzialismo per esprimere il grande dubbio, "l'ignoto del proprio sé", del solitario ridotto al silenzio, con una sola certezza: "La presenza di Dio nelle nebbie dell'incertezza e del nulla". Ecco un'eccellente decrizione del paradosso della solitudine:
La vita solitaria è piena di paradossi: il solitario è in pace, ma non nel modo in cui il mondo pensa la pace; è felice, ma non nel senso mondano; procede ma incerto del cammino, senza conoscere la via, ma arrivando comunque, e arrivando parte. Il solitario non possiede altra ricchezza che la vacuità, abbracciando la povertà interiore e nessun possesso. Il solitario è tanto ricco da non riuscire a vedere Dio, è così vicino a Dio che non c'è più prospettiva né oggetto, così inghiottito da Dio che non vi è più altro da vedere.A racchiudere queste riflessioni di Merton c'è l'assunto che la vita solitaria sia la volontà di Dio. Questa interpretazione della volontà di Dio è facile per i monaci, dichiara, il cui cammino è:
non nelle parole umane, ma nei segni divini. Ma per il solitario esiste una sola via, diversamente che per coloro che non sono consapevoli della propria solitudine. La realizzazione della propria solitudine, essendo l'unica via per incontrare gli altri, per vivere la compassione, per vedere la comune umanità della solitudine di tutti e di Dio - è la conferma del cammino del solitario e, nello stesso tempo, la dissoluzione "di tutte le distinzioni tra mio e tuo.Merton conclude parlando dell' "io" che si svela nella solitudine del sé profondo. Se l' "io" individualistico può essere coltivato e coccolato, l' "io" profondo dello spirito può solo Essere e Fare. Esso proviene da Dio ed è il più universale degli elementi. In questo "io" la solitudine di ciascuno incontra la solitudine di Dio, "al di là delle divisioni, delle limitazioni dell'auto-compiacimento". Infatti, per Merton, questo "io" è Cristo stesso, è Dio.
Conclusione
Di sicuro la forte articolazione delle Notes di Merton sulla filosofia della solitudine è una sfida alla chiesa, al monachesimo, alla società e all'individuo. Inoltre, lo scritto riflette il sentimento d'angoscia che segna il cammino personale di Merton, e i tanti riferimenti al ricercatore solitario sono riferiti a lui stesso e alla sua difficile esperienza, anche nell'esprimere la sua visione dell'eremitismo, lottando, insieme, con il suo personale desiderio di solitudine.
Nonostante alcune espressioni autoreferenziali e ripetizioni, questo compendio di ragione ed esperienza fa delle Notes uno dei più completi lavori di Merton e uno dei trattati sulla solitudine più interessanti. Solo dopo il 1965, quando Merton abbraccia la condizione eremitica a tempo pieno, possiamo riscontrare la piena realizzazione della traiettoria tracciata da questo scritto, che comprenderà la fusione, nei suoi scritti, di misticismo e pensiero orientale.
Concludendo, riporto la frase che Merton scelse di porre in apertura del saggio, un verso del poema di St. John Perse: "un cri d'oiseau sur les recifs" - il grido di un uccello sugli scogli.
FONTI
~ Kinkazzo: Electrocuting the monk / Il monaco fulminato [in inglese].
~ Solitude, Loneliness, Emptiness and Compassion [in inglese].
[estratto dagli scritti di Thomas Merton]
CONTEMPLAZIONE E DISTACCO
Mi chiedo se vi siano ora venti uomini al mondo che vedano le cose quali esse sono in realtà. Ciò significherebbe che, ivi sono venti uomini liberi, non dominati e neppure influenzati dall'attaccamento alle cose create, a loro stessi o ad uno qualsiasi dei doni di Dio, o anche alIa più alta, alIa più soprannaturalmente pura delle Sue grazie. Non credo vi siano oggi al mondo venti uomini simili. Ma uno o due ce ne devono essere. Sono essi che tengono assieme ogni cosa ed impediscono all'universo di sfasciarsi.
Tutto ciò che tu ami per se stesso, al di fuori di Dio, accieca il tuo intelletto, mina il tuo giudizio sui valori morali e vizia la tua scelta, tanto che tu non puoi distinguere chiaramente il bene dal male e non puoi conoscere in verità il volere di Dio. E quando ami e desideri le cose per se stesse, non sai come applicare i princlpi morali generali, anche se puoi comprenderli.
Anche quando la tua applicazione dei principi è formalmente esatta, ci sarà probabilmente una circostanza nascosta, da te trascurata, che inquinerà di qualche imperfezione le tue azioni virtuose.
Coloro che si sono abbandonati interamente al disordine del peccato si rendono spesso assolutamente incapaci di comprendere i principi più semplici, non possono più vedere neppure la più ovvia delle leggi morali.
Possono avere le doti più brillanti ed essere in grado dl discutere le più sottili questioni di etica - ma non tengono minimamente in considerazione ciò di cui parlano, perché non amano queste cose come valori, ma hanno per esse soltanto un interesse astratto, come per dei concetti.
Vi sono certi aspetti del distacco e certi raffinamenti di purezza interiore e di delicatezza di coscienza che in genere neppure gli uomini sinceramente santi riescono a scoprire. Anche nei monasteri più rigidi e nei luoghi dove si dedica con serietà la propria vita alIa ricerca della perfezione, molti non giungono mai a sospettare quanto essi siano dominati da forme inconsce di egoismo, quanto i loro atti virtuosi siano conseguenza di un meschino interesse umano.
In realtà son proprio la rigidità e l'inflessibile formalismo di questi uomini pii ad impedire loro di raggiungere il vero distacco. Essi hanno rinunciato ai piaceri e alle ambizioni del mondo, ma si sono riservati altri piaceri e altre ambizioni di carattere più alto, più sottile e più spirituale.
Qualche volta non sospettano nemmeno che sia possibile cercare la perfezione con una intensità di zelo per se stessa imperfetta. Sono troppo attaccati alle cose buone del loro piccolo mondo chiuso.
Qualche volta, per esempio, un monaco può nutrire un attaccamento alla preghiera o al digiuno, a una pratica pia o ad una devozione, a una certa penitenza esterna, a un libro, a un sistema di spiritualltà, a un metodo di meditazione o anche alIa contemplazione stessa, alle più alte grazie della preghiera, a virtù, a cose che in sé sono segni di eroismo e di grandissima santità.
Ed uomini che sembrano santi si sono lasciati accecare dal loro disordinato amore per simili cose e sono rimasti nelle tenebre e nell'errore quanto i loro confratelli del monastero, che sembrano tanto meno perfetti di loro.
Qualche volta i contemplativi pensano che il fine e la essenza della loro vita si trovino nel raccoglimento, nella pace interiore e nel senso della presenza di Dio. Si attaccano a queste cose. Ma il raccoglimento è una cosa creata, non meno , di un'automobile. Il senso di pace interiore è creato, allo stesso modo di una bottiglia di vino.
La « consapevolezza » sperimentale della presenza di Dio è una cosa creata, precisamente come un bicchiere di birra. La sola differenza sta nel fatto che il raccoglimento, la pace interiore e il senso della presenza di Dio sono piaceri spirituali, mentre gli altri rappresentano piaceri materiali.
L 'attaccamento alle cose spirituali è un attaccamento simile all'amore disordinato per qualsiasi altra cosa. L 'imperfezione può essere piu nascosta e piu sottile; ma da un certo punto di vista ciò non fa che renderla piu pericolosa, perché più difficilmente si riesce ad individuarla.
Così molti contemplativi non diventano mai grandi santi, non entrano mai in stretta amicizia con Dio, non giungono mai ad una profonda partecipazione alle Sue immense gioie, . perché abbarbicanoo alle piccole e miserabili consolazioni che vengono concesse a chi si incammina sulla via della contemplazione.
Molti si trovano in una condizione ancora peggiore : essi non giungono mai alla contemplazione perché si dedicano ad attività e ad imprese che sembrano loro più importanti. Accecati dal loro desiderio di continuo movimento, di un senso costante di attività, affamati di un aspro appetito di risultati, di successo visibile e tangibile, si mettono nella condlzione di credere di non poter essere graditi a Dio se non si affannano contemporaneamente a una dozzina di lavori. Qualche volta riempiono l'aria di lamenti e di rimpianti per non aver più tempo per la preghiera, ma sono diventati così abili nell'ingannare se stessi, che non comprendono quanto poco sinceri siano i loro lamenti.
Non solo addossano una sempre maggior quantità di lavoro, ma vanno cercando nuovi campi di attività. E più sono indaffarati, più errori compiono. Accidenti e sbagli si accumulano attorno a loro. Ma essi non raccolgono l'avvertimento. Essi vanno sempre più alla deriva - e forse allora Dio permette che portino le conseguenze dei loro errori. In questo caso si scuotono, e si avvedono che la loro trascuratezza li ha trascinati in qualche grosso ed evidente peccato contro la giustizia, per esempio, o contro gli obblighi del loro stato. E così essi annegano.
Quanti sono coloro che hanno soffocato le prime scintille della contemplazione, accumulando legna sul fuoco prima che questo fosse bene acceso! Lo stimolo della preghiera interiore li eccita al punto che essi si abbandonano ad ambiziosi progetti per catechizzare e convertire il mondo, mentre Dio chiede loro soltanto di stare tranquilli, di mantenersi in pace, attenti al lavorio segreto che Egli ha iniziato nelle loro anime.
[...]
Pure, se cercate di spiegare loro che può esservi molta imperfezione in quello zelo per attività che Dio da loro non desidera, essi vi trattano come un eretico. Sono convinti che voi avete torto, tanto intensa è la brama che provano per i risultati che immaginano di poter ottenere nel segreto della pace interiore e il distacco.
Il raccoglimento è impossibile per chi è dominato dai desideri confusi e mutevoli della propria volontà. E anche se questi desideri . tendono ai beni della vita interiore, al raccoglimento, alIa pace, ai piaceri della preghiera, se non sono altro che desideri naturali ed egoistici, renderanno il raccoglimento difficile ed anche impossibile.
Non potrai mai trovare la perfetta pace interiore e il raccogIimento se non ti staccherai anche dal desiderio di pace e di !raccoglimento. Non potrai mai pregare perfettamente se non ti staccherai dai piaceri della preghiera. Se abbandonerai tutti questi desideri e cercherai una cosa sola, la volontà di Dio, Egli, in mezzo agli affanni, ai conflitti e alle prove, ti darà raccoglimento e pace.
Nella vita religiosa esiste una specie di crudo materialismo che induce uomini sinceramente santi a credere che abnegazione significhi semplicemente rinuncia a tutto ciò che soddisfa i cinque sensi esterni. Ma questo è appena il principio dell'abnegazione. Naturalmente, prima che la vita interiore possa anche solo iniziarsi, noi dobbiamo esserci staccati da tutto ciò che è grossolano e sensuale. Ma, una volta iniziata, la vita interiore farà ben pochi progressi se non ci staccheremo sempre più anche dai beni razionali, intellettuali e spirituali.
Chi spera di diventare contemplativo distaccandosi solo da ciò che gli e vietato dalla ragione non giungerà mai nemmeno a conoscere il significato di contemplazione.
Perché la via che conduce a Dio passa attraverso una tenebra profonda, nella quale ogni conoscenza, ogni sapienza creata, ogni piacere e prudenza, ogni speranza ed ogni gioia umane vengono distrutte e annullate dalla soverchiante purezza della luce e della presenza di Dio. Tutto ciò che sappiamo, tutto ciò che desta piacere o desiderio nelle nostre facoltà naturali non può essere che di ostacolo al puro possesso di Lui quale Egli è in Se Stesso; quindi, se qualcuna di queste cose basterà a soddisfarci, resteremo infinitamente lontani da Lui.
Ecco perche dobbiamo essere distaccati e liberi da tutto questo per giungere a Lui. Non è sufficiente possedere le cose materiali e spirituali e goderne nei limiti della moderazione razionale : dobbiamo essere in grado di trascendere ogni gioia, di superare ogni possesso se vogliamo arrivare al puro possesso e godimento di Dio.
Così la vera vita contemplativa non consiste nel godimento di piaceri interiori e spirituali. La contemplazione - qualcosa di più di un raffinato e santo estetismo dell'intelletto e della volontà, nell'amore e nella fede. Riposare nella bellezza di Dio come puro concetto, senza gli accidenti dell'immagine o della specie sensibile o di alcun'altra rappresentazione, è un piacere che appartiene ancora all'ordine naturale. E' forse il piu alto piacere cui la natura ha accesso, e molti non vi arrivano con i loro soli poteri naturali - essi hanno bisogno della grazia per poter sperimentare questa soddisfazione che è di per sé nei limiti della natura.
Ciò nonostante, poiché è naturale e può essere desiderata per natura ed acquisita con discipline naturali, essa non può aver molto a che fare con la contemplazione soprannaturale.
La vera contemplazione è l'opera di un amore che trascende ogni soddisfazione ed ogni esperienza per riposarci nella notte della fede pura e nuda. Questa fede ci porta così vicini a Dio, che si può dire lo tocchi e lo afferri quale Egli è, anche se nelle tenebre.
E' l'effetto di questo contatto e spesso una pace profonda che trabocca nelle facoltà inferiori dell'anima e costituisce cosl un' esperienza ». Pure questa esperienza o senso di pace resterà sempre un accidente della contemplazione, e l'assenza di questo « senso » non significa quindi che il nostro contatto con Dio sia cessato.
Legarsi a questa « esperienza » di pace significa minacciare la vera, essenziale e vitale unione della nostra anima con Dio, al di sopra del senso e dell'esperienza, nella tenebra di un amore puro e perfetto. Per quanto possa essere un segno della nostra unione con Dio, questo senso di pace rimane soltanto un segno, un accidente. La sostanza dell'unione non è necessariamente vincolata a tale senso, e qualche volta, quando non abbiamo in noi senso di pace o della presenza di Dio, Egli è più veramente presente in noi di quanto non lo sia mai stato prima.
Se attribuiremo troppa importanza a questi accidenti, correremo il rischio di perdere ciò che è essenziale, cioè la perfetta accettazione della volontà di Dio, quali che possano essere i nostri sentimenti. Ma se credo che la cosa piu importante nella vita sia un senso di pace interiore, sarò sempre più turbato quando mi accorgerò di non provarlo.
E poiché non posso produrre in me questo stato ogni volta che lo voglio, il turbamento aumenterà con il fallire dei miei sforzi.
Alla fine perderò la pazienza e rifiuterò di accettare questa situazione che sfugge al mio controllo, e così perderò l 'unica realtà che importa, cioè l'unione alla volontà di Dio senza di cui la vera pace è assolutamente impossibile.
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